SARA, SARO E LA FABBRICA DI CIOCCOLATO
di Laura M. Alemagna

Come di fronte a vestigio, l’impronta l’abbiamo seguita a ritroso. Materia da un mondo lontano rimasta, nella sostanza, non troppo dissimile dal suo archetipo.
Reliquia culinaria, preparato per certi versi alchemico, l’insieme che compone questo cioccolato grezzo e spigoloso, amaro e odoroso, che abbiamo tra le mani, riesce a dire un mare di cose. Di civiltà lontane, aggressioni colonialiste, mutamenti sociali, solidarismi, di piacere e di lusso, di svolte, sogni, di scambi, culture diverse e «solide utopie».


Nella gelateria di Leonardo Baglieri (Gelati e Granite, come da insegna del furgoncino ambulante di una figura molto nota nel modicano: Don Giuggino, Re del Gelato), Sara Ongaro, Saro Guarrasi e il proprietario discutono del prezzo delle fave di cacao: «a inizio anno le davano a meno di 5 euro al chilo, a giugno a 18». L’argomento è, ogni volta e in ogni dove, all’ordine del giorno. Prezzi come su tagadà, salgono, scendono, coinvolti da vorticosi imprevisti: crisi climatiche, politiche, guerre, costosa burocrazia, aumento dei costi dell’indotto, della materia prima, norme, leggi, speculazioni, profitto.

Sara e Saro, di LAeQUA, in questa gelateria non portano pasta di cacao ma mandorle locali da loro lavorate e trasformate nel laboratorio appena fuori Modica, in Contrada Creta Violicci. È lì che ci dirigiamo finita la coppetta. 

Agosto è passato e il caldo cede un poco. La sala dei macchinari per la sbucciatura dei semi è fresca, quella delle lavorazioni del cioccolato freschissima, refrigerata. Il cioccolato lo impone.

Saro, quest’estate «doveva sempre lavorare, dalla mattina fino a sera, sempre al fresco», sfotte Sara.
Saro, modicano e Sara, lodigiana, dal 2023 partecipano a La Terra Trema con cioccolato di Modica, crema di nocciole, tahina. Entrambi ravvivano il mondo del commercio equo da decenni.
In sala macchine troviamo Emanuele Sparacino e Bubakar Barry, lavorano alla manutenzione di quelle che l’indomani entreranno in funzione per la nuova stagione di sbucciatura. Raccolta, smallatura, asciugatura si sono appena concluse.

La macchina per la sgusciatura delle mandorle a guscio duro è grande, solida, un pezzo di altri tempi. Complessa come un orchestrion.

Sedici binari, uno per una e una sola mandorla, portano ad altrettanti martelletti così che i frutti scendano nel piccolo spazio, prendano il colpo per finire giù nello scivolo. Il seme, separato dal guscio, ne uscirà intatto, integro, separato dalla buccia che, messa da parte, andrà alle pizzerie e ai panifici. Per l’alto potere calorico, la useranno nei forni a legna.

Emanuele è un giovane appassionato produttore di mandorle. S’intende di manutenzione e si occupa con piacere di seguire la meccanica delle macchine in sala sbucciatura. Gli studi e la vita lo hanno portato su molte strade: l’istituto tecnico/professionale (meccanica), l’università (filosofia), l’Emilia Romagna, il ritorno in Sicilia, ai mandorleti di famiglia, agli agrumi, agli ulivi. Ha acquisito così competenze precise e preziose. È membro della filiera di piccoli produttori del sud-est siciliano aggregatasi in questa porzione di Iblei col desiderio di fare rete, sodalizzare, trovare linfa e sostegno nel confronto. Filiereque Iblee gestisce questo laboratorio dal 2016. 

Ci racconta martellando su ingranaggi e armeggiando la chiave a cricchetto che non vede l’ora di usare. 

La sgusciatrice è un’operosa sessantenne che tiene botta. Oggi trovarne così è diventato difficile perché non se ne producono più.
Un tempo, nella zona di Avola, la necessità di trasformare la mandorla (a guscio duro) aveva visto un nutrito e prolifico scervellarsi di ingegneri e patiti. Carlo Tossani depositò il suo brevetto negli anni Trenta e l’Officina di Costruzioni Meccaniche Sgusciamandorle avolese sfornò numerosi cavalli di battaglia. Ma quella produzione oggi langue. Per questo è meglio avere massima cura di quegli ingranaggi collaudati ed efficaci. Meccanici, non digitalizzati da chip. Novecenteschi e agricoli, questi macchinari consentono ancora di intervenire con le proprie mani su un guasto, sull’inceppo. Come vecchi trattori.

Qui si lavora prevalentemente mandorla a guscio duro, nelle varietà più pregiate: pizzuta, romana, fascionello, la rarissima chiricupara. Varietà antiche, oggi quasi introvabili e poco utilizzate, per la poca resa, per la fioritura precoce di alcune, che mette il raccolto alla mercé di gelate e intemperie, non più così inconsuete da queste parti.

In Sicilia fino a non troppi anni fa si contavano anche duecento varietà di mandorle, ognuna di queste aveva le sue caratteriste, la sua destinazione d’uso ottimale: torroni, gelati, pasta di mandorla, granella, amaretti, pasticceria, biscotti. È uno scrigno prezioso in effetti, dentro il suo durissimo guscio può rimanerci a lungo senza perdere nutrienti, senza alterare il sapore.
Le mandorle a guscio tenero, spiega Sara, sono molto diverse, varietà relativamente nuove, hanno resa e qualità totalmente differenti. Ferragnes, tuono, genco sono quelle che trattano loro.

Il lavoro che la filiera di produttori svolge in laboratorio è piuttosto importante per il territorio. Non si tratta solo di pulire dal guscio le proprie mandorle per poi trasformarle, Sara e Saro sono gli unici che restituiscono il proprio prodotto ai piccoli produttori e soci (un’ottantina) che usufruiscono del loro servizio di sgusciatura. La misura limitata delle loro macchine offre questa possibilità. Chi lavora su macchinari e quantitativi più grossi non può garantire questo servizio, non riuscirebbe a gestirlo. 

Non hanno una pelatrice ma se qualcuno richiede di questo servizio si rivolgono al carcere di Siracusa dove la Cooperativa L’Arcolaio, con cui collaborano, ha un impianto di pelatura.

QUESTA STRANA SFIDA
Il progetto sul cioccolato di Sara e Saro lo conosciamo da anni. Elisa, da moltissimo tempo, ordina loro la massa di cacao per i dolci proposti in Cucina Pop al Leoncavallo, Gabriele non manca di rifornirsi per i suoi prestigiosi gelati. Ma LAeQUA di oggi arriva dopo, nel 2020. Prima c’erano Quetzal e una scommessa importante su Modica.
Nel 1995, Quetzal era una bottega del mercato equo presa da «questa strana sfida» di non far lavorare volontari ma solo persone assunte. Il motivo era semplice. Parlare nel modicano (ma in generale in Sicilia) di commercio equo e solidale aveva una duplice implicazione: nessuno lo conosceva (anche in Italia le botteghe non erano così tante), e quella accezione solidaristica e volontaria era difficile da far passare. Come e con quale credibilità parlare dei diritti dei lavoratori nel sud del mondo se tu stesso, azienda, non riesci a produrre contratti, non dimostri per primo che puoi pagare in modo legale le persone che lavorano per te, nella tua bottega?
La bottega parte bene, ma la misura di questo azzardo solidale è limitato alle due persone messe al lavoro. Questo concedeva lo spazio fisico del negozio, di più non si poteva.


È un viaggio in Ecuador compiuto dai soci, qualche anno dopo, a rimescolare le carte, con un passaggio nella comunità di Salinas che produceva il cacao che importavano in Italia col commercio equo e solidale.
È in quell’occasione che scoprono l’origine della massa di cacao, di quell’ingrediente per loro e per ogni modicano così familiare e quotidiano.

DIGRESSIONE. TRA CALICI DORATI, TAZZINE, CHICCHERE, BARRETTE
Modica ha un rapporto col cioccolato tutto suo che, ovviamente, ha a che vedere con la produzione sconfinata di cioccolato in tutte le salse di questi ultimi decenni. 
Ogni famiglia modicana aveva e ha uso di andare a comprare la massa di cacao in pastiglie per fare in casa il cioccolato. Un consumo che ha ragioni molteplici, ragioni storicizzate e poi nei secoli consolidate, divenute familiari, intime, materne.

«Quella del cioccolato di Modica è la ricetta più vicina al preparato di Aztechi e Maja»: per provare a dare un senso a questo strano corto circuito serve partire da lontano.
Tracce risalenti al 3000 a. C. sono state rinvenute in vasellame, piatti e tazze in Mesoamerica.
È risaputo che le cosiddette civiltà precolombiane ritenessero il cacao ingrediente principale di una bevanda cultuale, usata nelle cerimonie religiose per onorare le proprie divinità, Quetzalcoatl tra tutte.

Amarissima, piccante, speziata, color rosso sangue per la presenza dell’achiote, veniva conservata in forma solida (ad addensarla ci pensava la farina di mais) e consumata in forma di bevanda. Theobroma Cacao è il nome scientifico che fu dato all’arbusto in Europa. «Cibo degli dei», cibo divinizzante anche per la scienza.


Il passaggio tra vecchio e nuovo continente avvenne per un equivoco feroce: considerare messaggeri divini quegli uomini a cavallo, chiari di pelle, giunti invece a imporre, conquistare. Prima che la imposición fosse chiara, c’è stato un momento in cui agli stranieri predatori non furono rivolti atti ostili ma offerte votive. Tra tutte quella che gli spagnoli considerarono brodaglia spaventosa e sanguinolenta, il «brodo indiano», amaro, folgorante (si legga l’omonimo libro di Piero Camporesi, che ne dice delle evoluzioni settecentesche).
In principio gli spagnoli non apprezzarono quel sapore alieno, ma nel giro di poco compresero gli effetti benefici in grado di infondere a corpo e mente. Quell’ambrosia celeste aveva potenzialità strategiche potentissime: la teobromina, alcaloide in grado di ridurre la fame, energetica, capace di sostenere il fisico e di amplificare la lucidità mentale. Vero intruglio divino, letteralmente.


Nel 1522 il cacao arriva in Spagna, pare per mano di un monaco cistercense, Fray Jerónimo de Aguilar, al seguito di Hernán Cortés. È portato in dono all’Abate Don Antonio de Álvaro del Monasterio de Piedra, fra Saragozza e Madrid, con le fave di cacao, la ricetta della bevanda fortificante e un metate (lo strumento di pietra che riscaldato da un braciere permette la fuoriuscita del burro di cacao e la macinazione delle fave con una sorta di raclette).
Nel vecchio continente la preparazione in bevanda vedrà aggiungere zucchero e togliere le spezie piccanti sostituite da cannella e vaniglia, più familiari, addolcenti e alla moda. La farina di mais usata per addensare sarà sostituita da farina di riso o di grano.
Nel giro di poco, come in vere e proprie fucine, nei monasteri si prese a preparare i blocchi di massa di cacao, solidi da conservare, da disciogliere in acqua bollente all’occorrenza per la bevanda che si consumava fredda.
Se questo è il cioccolato consumato in Europa fino alla fine del Settecento, quella base condensata è esattamente il cioccolato di Modica oggi.

SÌ, MA PERCHÉ PROPRIO A MODICA?
Sara, ha studiato. Voleva trovare una spiegazione. Ha ricostruito e tracciato la sua mappa a ritroso. «A Modica alla fine del Quattrocento avviene una cosa stranissima». 

«Tra il 1300 e il 1700, questa non era la piccola cittadina che conosciamo oggi», dice. «Era capitale di una contea importantissima in tutta la Sicilia, territorialmente molto estesa, tanto da arrivare sino a Caccamo e Alcamo».
Modica aveva ricevuto terre e privilegi di ogni tipo da parte del Re di Spagna per l’aiuto che il Conte di Cabrera aveva dato per la conquista di molti territori nell’isola.

Privilegi, possibilità, permessi di esportazione altissimi, tribunali, istruzione: la corte modicana si era, per questo motivo, animata di un gran numero di famiglie nobili provenienti dalla Spagna e dal territorio. 

Quando, alla fine del Quattrocento, il Conte si trova in bilico tra crisi economica e feudi problematici, balena in lui l’idea di mettere a frutto i propri possedimenti, ricavare denaro dalle terre, e prende ad affittarle col contratto in uso a quei tempi: l’enfiteusi, un contratto a lunga scadenza, anche ottanta o cento anni. Ma in cento anni di cose ne succedono moltissime. Si fa in tempo a vivere due o tre vite. Quelle terre affittate mai più torneranno in mano agli eredi e diventeranno il gruzzolo alla base di una nuovissima compagine sociale: la piccola e media proprietà agraria, proto-borghese.

Nel 1600 si consolida a Modica questa nuova classe sociale costituita prevalentemente da aristocrazia agraria, un’alta borghesia non dedita al commercio o ad altre professioni.

Queste famiglie, estremamente ricche, acquisiscono uno stile di vita simile a quello delle famiglie nobili: seguono le mode, mangiano prelibatezze mai viste prima, acquistano una gran varietà di prodotti provenienti dal continente, smuovono merci e porti. Le tanto declamate tavolette, status symbol raffinato, nelle preparazioni di pietanze dolci e non solo (i Medici ne avevano fatto un culto già nel Cinquecento) non fanno fatica ad arrivare.

È così che il cacao entra tra i beni di consumo modicani, è così che arriva non solo alle famiglie nobili ma anche alle famiglie medio-borghesi. Nel giro di un paio di secoli la nobiltà esaurisce splendore, sfarzo, le tavole imbandite lasciano il passo a una borghesia meno appariscente ed è questa classe dirigente emergente che perpetua il consumo di cacao, in ambito domestico e più ristretto. Nel Novecento, un’ulteriore declinazione di quest’uso: vedove o persone a basso reddito lavorano in casa e producono le barrette vendendole porta a porta. 
La massa di cacao è venduta nei caffe e nei “coloniali”, gli unici che potevano accedere all’acquisto di zucchero (e caffè e spezie) in tempo di guerra e ristrettezze. Un canale commerciale del tutto nuovo si era aperto, coinvolgeva maestranze, tirava in causa usi tramandati di famiglia in famiglia.
Chiusa la digressione.

TORNIAMO IN ECUADOR
Torniamo all’oggi, a quella visione ecuadoriana del manipolo di sodali modicani. Alla scoperta succede il desiderio di cominciare ad acquistare la massa lì, almeno per la produzione domestica delle loro famiglie, per non dover più prendere quella industriale. Una svolta.

Nel tempo, però, questa relazione prende sempre più forma.
Portando le tavolette in dono alle riunioni nazionali di Altromercato tutti chiedevano «Fatele voi, distribuitele in tutte le botteghe del mercato equo». E così fu.
In quegli anni non c’era una grande proposta. C’era Bonajuto, c’era qualche ristorante che ne faceva proposta semiclandestina, c’erano soprattutto i bar pasticceria che, abbiamo visto, per tradizione consolidata preparavano tavolette per la vendita, rigorosamente quadripartite, per agevolare la dosatura in preparazione. 

E così inizia, nel 1999. Così. Per i primi due/tre anni Quetzal si appoggia ai laboratori alla Cooperativa Don Puglisi poi apre il suo laboratorio. Per garantire i passaggi etici e qualitativi di tutta la filiera. 

Nel 2018 entrano in funzione i locali dell’attuale laboratorio con l’idea di innescare un progetto partendo dalle fave di cacao, bean to bar.
Nel 2020 Quetzal arriva a un bivio, decide di tenere aperta solo la bottega.
Ma Sara e Saro non vogliono rinunciare a quel progetto così stratificato, provano a pensare a una società coi ragazzi e le ragazze che animano il laboratorio. Ma è il 2020, anno infame che poco spazio lascia a progetti a lungo termine, a sogni e visioni. Soldi non ce ne sono. Quelle famiglie di lavoratrici e lavoratori sono aggrappate a troppe incertezze per affrontare quella sfida con serenità.
Sara e Saro trattengono il fiato e compiono “da soli” quel tuffo a bomba nel mare di incertezze e pasta di cacao.
E poi così “soli”, alla fine, non sono. La nuova gestione apre le porte a sperimentazione libera, immediata, spensierata. Nel complesso le cose non cambiano tanto: le ragazze al lavoro autogestiscono il laboratorio con la solita efficienza. Il confronto sugli ordini, le scadenze, le priorità da stabilire, le nuove strade da percorrere offrono motivo di incontro e il resto scorre, con agilità. Il senso di quel lavoro svolto insieme per venti lunghi anni, dal guscio duro di una mandorla è stato protetto in condivisione e con solidarietà.


WILLY WONKA
Il laboratorio dedicato alla trasformazione di mandorle, cacao, sesamo, nocciole è piccolo ma ben organizzato. La macchina principale arriva da Villanova Mondovì, da Ideo Tecnica, piccola azienda familiare di Carlo De Carolis. Pensata all’origine solo per le fave di cacao, qui è utilizzata anche per altri semi oleosi. Una possibilità che ha aperto le porte a stimoli e sperimentazioni.
Le fave di cacao intere (o le mandorle, o il sesamo) per essere finemente sminuzzate, passano per due cilindri che, girando, riducono in granella. Questa materia triturata va in un mulino a sfere di acciaio. Qui, l’azione del movimento delle sfere produce la macinazione della granella e la trasformazione in pasta morbida, in ghiotto fluido.
Requisito fondamentale per la macina è la capacita oleosa del seme: il sesamo, meno oleoso, ha il 30% di olio; mandorle e nocciole il 50/52%; il cacao ha il 50% di grasso, il burro di cacao (quella massa bianca e insapore che sta alla base del cioccolato bianco e di numerose altre lavorazioni, anche cosmetiche).
La massa di cacao dopo circa due ore solidifica naturalmente (e si scioglie con altrettanta facilità, da qui l’aggettivo fondente), per questo producono grandi pezzi da un chilo che sciolgono all’occorrenza. Per la sua naturale acidità questa forma è protetta dall’ingerenza di agenti patogeni.

La macchina del cioccolato, attivata a pedale, sforna ogni volta settecento barrette da sessanta grammi. Pura massa di cacao e zucchero.
Le forme deposte su un carrello subiscono una battitura, una scossa di vibrazioni per eliminare bolle d’aria. La frutta secca viene messa a questo punto, a mano, solitamente intera e non pelata.

Conservate nelle tradizionali formine a base di piramide (una volta erano di latta e le produceva un artigiano lattoniere), andranno su un binario, incartate una prima volta (qui Willy Wonka avrebbe messo il fortunato biglietto d’oro), timbrate e nuovamente imballate.
Le barrette sono per lo più destinate alle botteghe del commercio equo, ai gruppi di acquisto, ai mercati.


SOLIDALI PER CHI?

Per le fave di cacao Sara e Saro si rivolgono, tra le altre, alla Comunidad de Paz di San José de Apartadò progetto di difesa popolare nonviolenta dal 1997. Per questa comunità il cacao è fonte di reddito vitale. Altro cacao arriva dalla filiera del mercato equo nazionale.

Contrastare le grosse multinazionali è difficile. È un mercato corruttibile. Per cacao, zucchero, nocciole, l’insidia dell’agroindustria è dietro l’angolo e fa il buono e il cattivo tempo sbandierando anche etichette di sostenibilità. Ma, a ben guardare, i contratti che impone ai produttori, alle produttrici sono solidali per chi?

Le collaborazioni innescate da Saro e Sara sono state tante, in forme anche diverse. Nel 2013 parteciparono a un progetto di formazione tra Costa d’Avorio e Togo. Un lavoro di formazione che riguardava tutta la lavorazione del cacao, dalla tostatura alla macinazione, fino ad arrivare al confezionamento della barretta di cioccolato (anche modicano).
Per alcuni dei partecipanti fu una svolta, un punto di partenza. «Qua, per me, finisce il colonialismo», disse qualcuno, perché di quella materia prima, oro puro, si cominciò a fare cioccolato prodotto e venduto in Africa. Un sogno.

Oggi la filiera di LAeQUA si popola di molte realtà. Mandorle, nocciole, carrube, agrumi, sesamo arrivano dai dintorni, dai consorzi di rete voluti e creati in questi anni. Caffè e zucchero provengono da filiera controllata in Paraguay, Messico e Filippine. La preziosa manna arriva da Giulio Gelardi, uomo unico forse più ancora del suo prodotto. Qualcuno ha ripreso a coltivare cannameli per lo zucchero piccolissimi tentativi come capitava un tempo ad Avola, Ispica, Gela.

Oggi Modica continua a essere opificio culturale e sociale. Quella innata industriosità che ha sempre affascinato Sara permane, anche se qualcosa è esploso più del dovuto.
Il cioccolato modicano è presentato per le vie cittadine in mille salse e le botteghe atte alla vendita non si contano. Una sovrapproduzione insensata e infelice, che va a scapito della qualità delle economie, delle relazioni lavorative, della natura della materia prima.
Dal 2018 il Cioccolato di Modica è pure IGP, con marchio, Consorzio a Tutela, Distretto. Un caso forse unico in Italia vista la provenienza degli ingredienti. Cacao, zucchero, vaniglia, cannella evocano ben altri mondi, è un dato di fatto, ma è il passaggio a un certo punto è successo: trovata la carta d’archivio del nobile casato dei Grimaldi che documentava la «dolce fabrilità della capitale dell’antica Contea, dove “cicolateri”, già nel 1746, manipolavano aromatiche cotte di cacao», così il marchio è stato concesso. Non tutti hanno applaudito, non tutti hanno aderito. E, in effetti, anche solo la lettura degli ingredienti e di aromi improbabili su certe etichette fianco a fianco del marchio, rende poco onore a tutta questa grandissima storia, agli sforzi di Sara e Saro, delle numerose persone coinvolte. Dal paradosso del marchio si sono tirati fuori storici e preziosi nomi e i piccoli, piccolissimi, che per la misura limitata delle proprie produzioni non possono star dentro il disciplinare. Eppure, il cioccolato di Modica, era cosa domestica, si era detto.



Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 34
20 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org

Last modified: 24 Nov 2024

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