GEMME, SOTTO IL VULCANO
L’Etna vinicola è un reticolo infinito e torto. Qui Cantina Malopasso fa la sua piccola storia, una realtà vitivinicola semplice e aperta
Testo e fotografie di Laura M. Alemagna
Al proliferare di edifici e capannoni, di pompe di benzina e centri commerciali, di rotonde decorate di palme e cartelloni non ci si abitua. Ma un’alternativa non è contemplabile. A Milano, alla fine dell’Ottocento, per una quarantina d’anni, un vincolo vietò di costruire edifici oltre i due o tre piani se questi impedivano a chiunque, nella zona dei bastioni di Porta Venezia, di beneficiare della visione del Resegone e dell’apparato alpino cui apparteneva. Il vincolo non durò molto, gli edifici sorsero anche lì come funghi e quell’incursione selvaggia di roccia nella città fu in buona parte oscurata dalla modernità del cemento, dalle insegne, dalle esigenze di nuovi stili di vita. Se vai incontro all’Etna la sensazione è dunque di un inesorabile crescere, un oscurare paesaggio, orizzonti, piacere, cultura, memoria. In Europa, Catania è seconda solo a Oslo per numero di centri commerciali presenti e quasi tutti hanno l’Etna come grazioso sfondo alle spalle. Scellerato abominio, presagio nefasto. Come è potuto succedere?
GUARDALA
Se continui a salire, però, arrivi al punto in cui superi tutto. Superi i Vogue Store, superi I Portali e accedi, t’avvicini, te lo dicono i pini marittimi e poi le querce, le sciare a vista, i muretti di pietra lavica che ti stringono, le terrazze nere, la porzione di cima, si rimpicciolisce, è vero, non è più immensa, ma si fa pulita, libera. La cima è lì, sola e fumante, e tu guardala.
L’Etna vinicola è un reticolo infinito e contorto chiuso tra contrade e trazzere. Balate raccontano il passaggio, oggi immobile, di lento scorrere di lava su lava. Miriade di diversità in pochi metri, non un solo suolo, altezze cangianti, esposizioni mai uguali, questo ha immediate conseguenze nei vini che qui si producono. Di recente il Consorzio a Tutela Vini Etna DOC ha tracciato una mappa delle contrade con la volontà di definire più possibile le zonazioni. Le contrade identificate sono quasi centocinquanta sugli undici comuni coinvolti. Le delimitazioni sono pignole, il contorno è il puzzle di una mezza luna colorata. A oggi l’Etna vinicola è teatro di grandi cambiamenti, nel bene e nel male, “capitali” e “investitori” non si contano, i prezzi delle terre salgono, cambia la fisionomia di agricoltori e agricoltrici. La mappa da tracciare non è una sola, sono tante. Potremmo provare a sovrapporle: una per gli standard, una per i piccoli, una per i grandi, una per gli investitori, nazionali e internazionali, una per i guai, una per le gioie.
Passi Trecastagni, poi Fleri, San Giovannello, prima di Zafferana poi arrivi.
Cantina Malopasso di Floriana Cosentino e Pasquale Parafati ci attende ancora una volta, d’inverno. Con Floriana e Pasquale è facile incontrarsi a Catania (ma non oltre lo spettro della ciclofficina di quartiere che Pasquale governa assieme ad altre anime), oppure da Lino Volzone, non distante, a Mulsum, dove si condividono progetti e luoghi di degustazione.
Dall’ultima volta che andammo alle vigne è passato del tempo.
Avvenne appena dopo il terremoto del 2018. Aveva provocato sconquasso, a loro, a Lino. Ancora oggi le cicatrici sono fresche e ancora si fa i conti coi danni. Ci torniamo anche per questo, per capire a che punto.
A La Terra Trema 2022 Pasquale ha dovuto sbrigarsela da solo, Floriana non ha potuto accompagnarlo. Lo abbiamo visto roteare senza sosta al suo banco, in pace come un sufi in trance. Abbiamo avuto modo di parlare, nell’immediato ridosso di quell’occasione, di grandi passi, di crescita, cambiamenti, ostacoli, scelte, confronti, nuove occasioni. Ci siamo detti di rivederci presto. Prendiamo in parola.
PASQUALE
La biografia di Pasquale e Floriana è complessa di esperienze e percorsi. Pasquale, origini calabresi, ha formazione da agronomo.
Prima di Cantina Malopasso, prima del Salto del Corvo, esperienza vinicola con Pasquale Volzone, si destreggiava tra consulenze e biciclette. Il bike polo, le “cronoacchinate” per Sant’Agata della Salita San Giuliano, la ciclofficina, le biciclette a scatto fisso vecchie e nuove, ne avevano fatto quasi una figura mitologica. Oggi anima la ciclofficina di via Opificio 9, nel quartiere San Berillo a Catania. Il mercoledì, cascasse mondo o quasi, lo trovate lì, a riparare la bicicletta di Turi Stampella, degli altri abitanti del quartiere e di chi sa che in quel luogo si compiono miracoli giacché Pasquale, a quanto pare, qui, da figura mitica si fa santo terreno, non tanto per la venerazione tributatagli ma per le riparazioni impossibili: «ti posso dare al massimo tre euro, Pasquale, avaja» per certuni, nel quartiere.
In via Pistone, due traverse prima, tra i «vicoli scuri», ha sede Trame di Quartiere, associazione e luogo di incontro che propone, tra la scelta dei vini, anche quelli di Floriana e Pasquale. Trame si affaccia su San Berillo, quartiere ed essenza del centro storico, luogo di stratificazioni, contraddizioni, umanità, culture: palpita la presenza storicizzata delle comunità gambiane e senegalesi, la prostituzione «nelle case», il nucleo contorto e contraddittorio della movida catanese, della gentrificazione, delle riqualificazioni, delle puliture pianificate.
Anche a partire da questo quartiere, la storia del disastro edilizio e speculativo in cui è immersa Catania prese piede. Lo “sventramento di San Berillo” negli anni Cinquanta usò il bisturi per “risanare” la città illegittima e criminosa, per dare spazio alle modernità. Si tolsero le budella alla città e si aprirono le porte a molto altro, ai capitali, agli interessi privati, alla speculazione.
FLORIANA INVECE
Non lo diresti, per la preparazione e la meticolosità, per la dovizia con cui parla, non ha una formazione agricola, viene da tutt’altri mondi. Per oltre dodici anni è stata addetta al reparto macchine da presa, ha lavorato nel cinema, nella pubblicità, anche a livelli alti. Ha lavorato per smuovere tutti altri sensi: la vista, lo sguardo. Quel decennio abbondante passato a Roma tra pellicola, focus puller, troupe e set non appagavano il desiderio di vita, sotto l’ala del vulcano: «mi mancava l’Etna», le mancava troppo.
Torna a Catania nel 2015 per mettersi alla prova, nonostante le lusinghiere chiamate dal cinema continuassero, insistenti. Lavora per un anno abbondante da woofer a Mascali, a Bagolaro, con Diego Bongiovanni e Cinzia Managò alla costituzione della Cantina del Malandrino, altro versante, altri sguardi sull’Etna, altre illuminazioni, altri fermenti. Floriana capisce che quella della vigna è la sua strada così, conclusa l’esperienza mascalese (vissuta intensamente tanto da suggerire e cogliere il nome del vino di punta dell’azienda e dell’intero progetto: malandrino, per l’appunto, picciriddu e brigante), decide di mettersi a cercare il suo spazio e quella porzione di vulcano la trova nel 2017, con Pasquale, a Contrada Pietralunga, Zafferana Etnea, e a Monte Ilice, 700 mt sul livello del mare, esposizione est sudest, Trecastagni. Si tratta di un paio di ettari, presi in comodato d’uso da anziani del luogo, che per star dietro alla vigna non avevano più forze. Iniziano cautamente da quelle terre abbandonate, da quelle vigne anche settantenni, anche a piede franco, e pian piano cominciano ad acquistare quel che potevano, a permettersi gli ettari che gestivano.
Arriviamo alla vigna di Zafferana Etnea in mattinata, dicembre è una primavera tiepida. L’alisso riempie lo sguardo di mucchietti e ciuffi bianchi fioriti e il naso di sentori di miele. Il cielo è terso, il suolo sabbioso è asciutto.
I tutori in castagno svettano accanto alle piante ad alberello, pensi a una buffa spazzola coi suoi riccioli lignei avviluppati. Siamo lontanissimi dalle vigne a spalliera, dalla leggibilità cristallina di quei tralci scritti su pentagramma.
Floriana e Pasquale hanno costruito da poco una piccola recinzione per non subire l’agguato di capre e pecore. Prima, nulla impediva di passare ma, l’ultima volta, le maledette hanno mangiato di tutto, da qui la necessità di proteggersi.
Pensa come una capra, salta come una capra, mangia come una capra. Pasquale sembra aver usato questo assunto per riuscire ad arginarle: alza i pali e la rete metallica, togli i fichi d’india, trova tutti i possibili punti d’accesso.
Certo, non sono loro l’unico problema, c’è una lista, anche piuttosto corposa: depositi abusivi di spazzatura sulla via d’accesso, burocrazia ottusa, incendi da gestire in solitudine.
L’ultima, ennesima volta è capitato a luglio. Il fuoco ha mangiato un pezzo di vigna, Pasquale nella foga si è incrinato una costola, Floriana si è vista venire in contro vigili del fuoco con mezzi inadeguati, completamente sguarniti, «Mi puoi prestare la pala?» le hanno detto.
Non bastasse c’è la vera Spada di Damocle: un’arsura, innaturale e funesta, la mancanza di piogge autunnali e invernali, le nevi scarsissime. Eppure le correnti sono state sempre favorevoli, eppure il versante è stato ben piovoso.
Alle estati torride a volte si aggiunge la fitta pioggia nera di lapilli, che tutto copre e amplifica, la terra si fa inferno rovente. Tutto questo costringe a continui controlli, a pensamenti e ripensamenti in vigna. Potatura verde, innesti, qualunque invenzione utile per creare la possibilità di un minimo refrigerio alle piante.
In vigna sono in corso lavori di ripulitura, faticosi perché si scava, si creano le buche, si cambiano le piante, si spera in un freddo gelido rigenerante e disinfettante. La pratica d’innesto a spacco l’hanno imparata dai vecchi, praticata sotto terra per proteggere il punto di innesto, per salvare le gemme dalle estati secche, torride, dalle temperature altissime. “L’americano” accudirà l’innesto non prima di tre anni, prima non si può, la marza è troppo fragile, non reggerebbe, non sopravvivrebbe a queste estati aride su terreni sabbiosi che acqua non tengono, nella sostanza.
Per garantire un po’ di umidità dovrebbero bagnare ogni pianta, è impensabile, per ovviare provano a proteggere la delicata fase di gemmazione coprendo quei cumuli di terra con la paglia. Il continuo lavoro di controllo è l’unica possibilità, senza tregua, scava, copri, innesta e fai attenzione che l’innesto non faccia partire radici avventizie sulle marze.
Le piante a piede franco, non innestate, ci sono anche qui, sono molto più grandi e solide, hanno un portamento diverso ma non tutte resistono.
QUESTO COS’È?
«È tutto misto!», in vigna sono presenti almeno dieci varietà, alcune sconosciute, altre hanno provato a segnarle ma nel vortice è difficile riconoscerle ogni volta: nerello mascalese, nerello cappuccio, carricante, minnella bianca, minnella nera, grecanico dorato, zu Matteo, inzolia, mantiddatu, bracaù. Pasquale e Floriana amano questa diversità: «Facciamo dieci vendemmie», a seconda del vino c’è da andare a scegliere le uve, è un lavoro vertiginoso che raddoppia e ricomincia di nuovo «quando dobbiamo salire su alti terrazzamenti».
La vigna a Monte Ilice è più fresca, arriva a maturazione dopo, a Zafferana il grado zuccherino è generalmente più alto, «Siamo una colata, guarda, la vedi?», cerchiamo con lo sguardo di riconoscere questa enorme piastra di ghisa.
La vigna di Contrada Pietralunga è quella dedicata alla doc Etna, ne fanno un bianco (carricante al 70%, poi catarratto e altri vitigni autoctoni: grecanico dorato, minnella bianca, zu Matteo, inzolia), un rosso (nerello mascalese al 90% e poi mantiddatu, bracaù, minnella nera, nerello cappuccio) e un rosato (da solo nerello mascalese). Da nerello mascalese ricavano anche Cuccurucucù, un rosso scarico a breve macerazione. Fifty Fifty è la loro particolare declinazione di vino bianco macerato: minnella bianca con quattro giorni di macerazione e nerello mascalese vinificato in bianco.
Tutto intorno ulivi di varie cultivar, alberi da frutto, pesche, ciliegi, querce, peri e meli, un orto, le erbe officinali, i carciofi, la terra preparata per mettere giù i piselli. Poi il bosco rigorosamente delineato, di volta in volta, per impedire il propagarsi di fiamme in caso di incendio.
Saliamo su per muretti grandissimi, alti. Dove è stato possibile li hanno eretti ancora dopo i crolli. Il paesaggio si apre magnifico, questa volta è il mare che lascia senza fiato.
Su una delle terrazze più alte emerge, come un sogno, una botte grandissima, i cerchi guardano anche loro al mare e alla montagna. «Come diavolo l’avete portata fin lassù?» chiediamo. C’è il genio Do It Yourself di Floriana nella ricostruzione di quella tenera follia: «Ci dormirete voi, la prossima volta!» ci dicono. Diogene di Sinope, il cinico, filosofo asceta, profeta dell’autosufficienza randagia avrebbe gioito di questa possibilità.
DALL’ALTO
Guardi ai lavori, alla cantina nel vecchio palmento. Dall’ultima volta, quando il tetto era venuto giù col terremoto, sta prendendo forma, così anche l’ampia tettoia per le degustazioni. Il cantiere è in corso d’opera, ci vuole tanto ragionare perché i costi delle lavorazioni e dei materiali, più che mai in questo periodo, sono alti e loro li stanno affrontando da soli, ché ai contribuiti hanno rinunciato. Gli spazi interni sono definiti, già leggibili: una piccola cucina, il luogo deputato alle lavorazioni, quello per l’affinamento, i bagni. Prima del terremoto era la loro casa, ora ha un assetto completamente nuovo.
La tettoietta in legno, sotto la quale avverranno le degustazioni, sarà il luogo deputato alle contemplazioni del vulcano. Si è cercato di non sottrarre troppo allo sguardo, alla visione, anche dalla casa cantina. Dalla parte opposta il mare. La città di Riposto per lungo tempo ebbe un porto deputato al commercio dei vini etnei. Le economie familiari si sostenevano così: col nord che comprava, coi francesi e i piemontesi che mandavano navi, acquistavano vini da taglio in botti. Dalle navi approdate al porticciolo questi partivano verso il mondo. Oggi il mondo arriva ai vini etnei in un modo completamente diverso, il vino da taglio è un ricordo, o quasi.
Pranziamo insieme, fuori, terminato il via vai di amici e parenti, andati via i genitori di Floriana, Lina e Salvatore, lì per un saluto, per due chiacchiere, per controllare i lavori, per il vino per il cenone. Pasquale prende le bottiglie, stappa, ma prima piazza l’ombrellone sulle nostre teste, perché il sole di dicembre picchia forte.
Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 27
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org
Last modified: 7 Ago 2023