di Victor Cavallo
INCONTRO A CASTELPORZIANO
Mia cara fica
lucciola lanterna cicala stella nuvola sogno papavero orzata
fica
ti scrivo dalla garbatella dove passeggiavo con una maglietta
gialla e il cielo era pieno di rondini. Ma era verso sera e
all’epoca della prospettiva Nevskji.
Mia adorata sono stanco e ho bisogno dei tuoi capelli
e delle canzoni dell’estate 1979 e di una campagna acquisti
che mi ridia speranze di coppa Uefa.
Com’era atroce l’inverno sull’orlo della serie B!
Mia cara fica
non credo a niente
i prezzi del pane e del latte sono troppo alti
e il campo di bocce del forlanini è pieno d’immondizia
e i giardini di piazza S.Eurosia pieni di vetri rotti e cacche di volpini
e tutti quegli stronzi in giro
e lisa gastoni che m’ignora
e la rivoluzione che bestemmia sulla pista assolata del rock and roll.
Ti amo. e se tu non me la darai mi ucciderò con una overdose.
I can get no satisfaction
e sono io nel merdoso cimitero degli specchi
a vegliare la fica in equilibrio tra le stronzate
io tra gli stanchi bagnanti notturni che recitano michelangelo
e le pompinare americane che mordono i gondolieri
e l’1 a 0 di trevor francis al bar della fenice e gli angeli
e questo angolo di piscio dove m’inculo il mondo.
Mia cara fica
spero d’incontrarti sulla spiaggia di castel porziano.
io ti incontrerò perché tu emani luce ultrarealistica
e tu mi riconoscerai perché indosserò profonde occhiaie e
una collanina azzurra. Fuggiremo lontano dal vietnam
verso la divina pietralata. verso la tuscolana pazza e disperata.
FASE 4 SCENA UNO
Ero solo sui tapis roulants che portano alla stazione Ostiense a piazzale dei partigiani un tempo una giornata particolare piazzale Hitler. Qualche mese fa qui hanno accoltellato uno scellerato barbone. Vestiti e spiccioli. Prima anche vendevano sigarette no-monopol e la notte attorno al bar i tassinari falsi giocano a zecchinetta. Ero proprio solo e intorno i colori ai muri lo scorrere lento l’odore d’immobilità. Era tutto dritto e grigiastro come una divisa sporca, tutto dritto, invece era una curva di solitudine sociale. Se ne veniva fuori persino. Mentre pioveva e i nomi delle strade erano sempre più assurdi e una fogna immensa impediva d’arrivare al giornalaio e il bar di fronte puzzava di paglia bagnata che era poi la stessa puzza dei tramezzini. Come pioveva. Un mio amico quando è così dice “tempo da poeti” ma no era più e di meno insieme come sempre quando qualcosa sembra. È arrivato un romano zoppo e vivace come un ragazzino, io ero seduto sotto la pioggia che diventava gnagnarella e bagnava il messaggero, il giornale. Dice ma tu non sei piripì piripé e così e cosà nun t’aricordi quella vorta ar fico ecc. Si chiamava Roberto e diceva soprattutto questo io bevo e pippo e la donna m’ha lasciato e quando qualcuno tradisce una volta tradisce sempre. Vuoi una sigaretta cubana me l’ha data una bella fica che te bevi? Damme un consiglio. Lentamente smosciava la pioggia che invece prima aveva ripreso a bestia. Lentamente veniva fuori un grigio come da sotto le ascelle degli sfortunati, intendo un camminare che senza che me ne accorgessi diventava malignamente ancora una volta tapis roulants. Il premio era un avocado duro e stasera che faccio e una voragine che faceva scomparire ogni cosa, per dire certo, perché la stazione dei treni era lì, ferma, col suo orologio fermo, poetico, rotto. Qualcuno s’era alzato di colpo dalla panchina e gridava: se fosse solitudine se fosse solitudine. Allora? C’era uno lì seduto il padrone di un kioskobar e presidente dei pastai e capo dei commercianti e non so che cazzo altro io scherzavo che dicevo che era il capo di tutto, grasso, bei giubbotti, un motorino nuovo a settimana, romanista e mi urlava: ma che cazzo vonno sti laziali. Io sorridevo come un guidabus che dimentica la strada. Già lui era a capo di una association credo di nome X.Y.Z.G. e chiacchieravamo spesso insieme di calcio e dei vecchi quartieri, lì c’era quello, lì c’era questo. Sapeva tutto e inoltre al tavolino non mi faceva pagare la differenza. La moglie sempre in grembiule celeste. Lui viene e va, telefonina, firma assegni cambiali non lo so. È un kiosko vicino alla curva del tram numero trenta, lì gira piano e si riposa al capolinea come un tonno ubriaco, come me. Per essere così, sia come curva che come tonno ci vuole qualche morto alle spalle, davanti cioè
COME UN ALBERO DI MIMOSA
Un cortile, questo è, un cortile. Un cortile con un albero di mimosa. Un cortile proprio, ovverosia una specie di asilo nido naturale. Normale. Un ragazzino gioca qui, lo vede la madre, se va dall’altra parte lo vede l’altra madre… Un cortile con le lucertole, i sassi, l’erba… sassate in faccia, partite de pallone… tutto normale, tutto quasi come in un momento di pace, un cortile… pe’ veni’ così… Dice: “Che fai?”. “Cresco”. “Come vuoi diventa’ ?”. “Vojo diventà come un albero di mimosa”. Così… come un albero di mimosa vojo diventa’… e perché no?
Victor Cavallo, nato e vissuto e morto a Roma dal 1947 al 2000, ha pubblicato poco e scritto poco di più. Ha attraversato molti mestieri artistici, tutti obliquamente, ed è riuscito a innamorarsi della vita aggredendola, fino a consumarsi. Victor Cavallo è per noi chi, nella ricerca poetica in lingua italiana di fine Novecento, ha più sublimemente fuso il particolare all’universale, il dettaglio alla visione, il quotidiano all’archetipo, la solitudine al sorriso. La sua Roma, che appartiene alla lunga onda del declino eroinico e della sconfitta sociale, è imperiale e (perché) sporca, fastosa e (perché) cinica, splendente e (perché) misera, barocca e (perché) nuda, amata e (perché) disarmata, notturna e (perché) assolata. Meriterebbe, il suo lavoro, l’attenzione che meritano le albe.
Illustrazioni di Cyop&Kaf
Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 25
16 pagine | 24x34cm | Carta Nautilus Classic gr 100 | 2 colori
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Last modified: 9 Ott 2024