Se a Santa Maria Capua Vetere è stato grave a Modena è stato nove volte peggio
Di Sara Manzoli
Illustrazione di cyop&kaf
L’8 marzo del 2020 è una domenica, l’aria è primaverile come la stagione alle porte che nessuno si godrà. Il fumo che si alza da quella terra di nessuno, è nero e carico di presagi. Il carcere di Sant’Anna è in rivolta. Una tragedia annunciata. Una tragedia che si compirà sotto gli occhi di tutti e nel più vile tra i silenzi, quello che solo l’opportunismo più provinciale è in grado di partorire. Sono giorni particolari, la pandemia è agli inizi, le scuole sono già chiuse da due settimane in alcune regioni, la Lombardia e altre 14 province stanno per diventare “zona arancione” e la sera del 9 marzo il presidente del consiglio Giuseppe Conte annuncerà il lockdown. Nei mesi successivi, da più parti, verrà tirata in ballo anche la democrazia, o meglio la sua assenza, per via delle forti limitazioni imposte alla libertà personale inflitte a colpi di decreti. Nell’immaginario medio italiano il cittadino verrà confinato agli “arresti domiciliari”, un infelicissimo paragone che si svilupperà parallelamente al più totale disinteresse per le sorti delle persone realmente private della libertà.
La pandemia è globale e nelle carceri di tutto il mondo si accendono rivolte legate agli effetti devastanti che il Covid-19 potrebbe avere su prigioni sovraffollate e con scarsissima vigilanza sanitaria. Migliaia di detenuti in tutto il pianeta vengono rilasciati per evitare un’inutile strage, anche paesi come la Turchia (90.000) e l’Iran (70.000) lo fanno. In Italia, invece, l’ipotesi non è nemmeno presa in considerazione e quando cominciano a circolare le voci dei primi contagi all’interno delle carceri, nei penitenziari italiani si comincia a protestare.
L’8 marzo 2020, fuori dal carcere di Sant’Anna, c’erano i familiari dei detenuti accorsi per capire cosa stesse succedendo, dopo aver visto una fumana nera salire in cielo e macchiare l’orizzonte della città, raccontavano le condizioni dei propri cari rinchiusi all’interno del penitenziario a cui solo tre giorni prima della rivolta, il ministero della Giustizia aveva proibito le visite a causa del coronavirus mentre il giorno successivo, il 6 marzo, veniva trovato il primo positivo tra le fila della polizia penitenziaria. Come documenterà il giorno successivo il Resto del Carlino, fuori dal Sant’Anna si ammassano i reparti antisommossa arrivati da Bologna e Milano, poi i vigili del fuoco con 8 automezzi, la polizia municipale, la protezione civile e i militari, in un dispiegamento di forze imponente ma che non è in grado di rispondere nemmeno una volta alle legittime domande dei familiari accorsi fuori dall’istituto e che si stanno interrogando sullo stato di salute dei loro cari. Solo verso le 17 un graduato della polizia penitenziaria proverà a rassicurare le famiglie: «La situazione si sta stabilizzando, non ci sono feriti. Il fumo che vedete proviene dal tetto e non dalle celle che non sono state intaccate durante la rivolta. Dovete stare calmi però. Se urlate rischiate di fomentare ancora di più i detenuti presenti in struttura». Eppure i familiari sono arrabbiati, non si fidano, e la loro sfiducia non si placa di certo verso sera quando arrivano di decine di pullman della polizia penitenziaria per trasferire i detenuti e spargerli fra le carceri della penisola. Nemmeno la rabbia si placa, soprattutto quando i pullman si mettono a sfrecciare a tutta velocità fra la folla (una donna accusa anche un malore dopo aver rischiato di essere investita) o quando i familiari osservano impotenti la scena del pestaggio di alcuni detenuti già ammanettati prima di essere caricati sui veicoli per chissà quale destinazione.
Il giorno successivo, sulla stampa cittadina, si potrà leggere invece di “eroi”, di “agenti feriti” e di “fobia” del virus. Ma, soprattutto, si potrà già leggere la causa di quei decessi che di lì a poche ore sarebbero saliti fino alla tragica cifra di nove morti. Quella “overdose” che, nei giorni successivi, si ripeterà, come un mantra di telegiornale in telegiornale, di articolo in articolo, di bocca in bocca, diventando così verità già acquisita e percepita ancora prima di qualsiasi parola ufficiale. Dai giornali si apprende che cinque detenuti sono morti a Modena, mentre per altri quattro l’agonia si sarebbe protratta per ore, durante il loro trasferimento nelle carceri di Parma, Alessandria, Trento ed Ascoli. Ghazi Hadidi, 35 anni, morirà all’altezza di Verona sulla strada per Trento, Ouarrad Abdellah 34 anni, ad Alessandria, gli restavano da scontare meno di due anni per reati legati al piccolo spaccio, Artur Iuzu 31 anni, era invece diretto a Parma e in attesa del primo grado di giudizio e Salvatore Cuono Piscitelli, di 40 anni, morto ad Ascoli che sarebbe stato scarcerato in agosto.Nel carcere di Modena invece perdono la vita Ariel Ahmadi di 36 anni, padre di una ragazzina di 12 e che sarebbe tornato in libertà nel gennaio del 2022, Agrebi Slim, quarantenne, anch’esso con una figlia, Hafedh Chouchane, 36 anni a pochi giorni dalla scarcerazione, Ben Mesmia Lofti, di 40 anni e Alì Bakili cinquantaduenne.
Fino ad agosto regnerà il silenzio su quanto accaduto, ma poi a fendere questo muro arriveranno le lettere di due detenuti – testimoni (uscite senza firma, su richiesta degli estensori) che raccontano di pestaggi avvenuti nel carcere di Modena durante la rivolta e di altre botte durante e dopo il transito in altre città. Le missive vengono rese note dall’agenzia Agi e dal blog giustiziami.it. Il testo racconta abusi e vessazioni, come per il carcere di Santa Maria Capua Vetere: «Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Amatavano (ammazzavano?, ndr) la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dell’ordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta». «Sasà è stato trascinato fino alla sua cella e buttato dentro come un sacco di patate. Era debole, forse aveva preso qualcosa. E anche qua – dice – veniva la squadra. Come aprivi bocca per chiedere qualcosa, prendevi delle botte. Ci mettevano con la faccia al muro. Venivano a picchiare col passamontagna, per non far riconoscere le facce». Anche il secondo testimone conferma che Sasà stava malissimo, che sul bus era stato picchiato e che quando è arrivato ad Ascoli non riusciva a camminare. «Era nella cella 52, ho visto che nessuno lo ha aiutato». A dicembre, gli abusi già denunciati nelle lettere troveranno conferme. Cinque ragazzi firmano un esposto destinato alla procura generale di Ancona. Anche loro parlano di aggressioni fisiche, violenze, spari, torture e di assistenza negata a Salvatore Piscitelli (Sasà) una delle nove vittime di Modena, morto, a detta loro, nel carcere di Ascoli. I cinque denuncianti confermano quanto già raccontato sostanzialmente ad agosto tramite lettera dagli altri due altri detenuti, ossia di pestaggi, di abusi e di mancati soccorsi. Il 10 dicembre tutti e cinque verranno riportati nel carcere di Modena per essere interrogati dai pm una settimana dopo. A Modena vengono “accolti” in regime d’isolamento sanitario, in celle con vetri rotti (a dicembre) e coperte bagnate. Dopo gli interrogatori tutti e cinque verranno nuovamente trasferiti in posti diversi.
Alla vigilia del primo anniversario della strage si apprenderà della richiesta di archiviazione da parte della procura di Modena, per otto dei nove detenuti che hanno perso la vita durante la rivolta dentro la casa circondariale di Sant’Anna. A questa richiesta si opporranno Antigone e i legali delle famiglie che ritengono inesplorati alcuni aspetti e spingono a non chiudere il caso e di disporre invece nuove indagini. Gli otto morti per cui è richiesta l’archiviazione sono tutti di origine straniera e di conseguenza senza una rete sociale sul nostro territorio, e quando queste persone vengono colpite le loro morti risultano silenziose alle orecchie dei più.
A giugno si apprende dell’archiviazione della più grave strage carceraria dal dopoguerra ad oggi, con tre paginette scarse scarse nelle quali si indicava che «la vicenda ha trovato compiuta ricostruzione» «nelle relazioni redatte dalla polizia penitenziaria e dalla squadra mobile della Questura». In pratica, secondo il giudice l’intero svolgersi degli eventi nonché le omissioni di soccorso sarebbero state giustificate dalla straordinarietà dell’evento, ma una rivolta come quelle scaturite nel marzo 2020 all’interno delle carceri erano tutt’altro che imprevedibili. La paura dei contagi e il diffondersi di un virus ancora del tutto sconosciuto all’interno delle mura di un carcere sommata alla sospensione dei colloqui e al muro di gomma che contraddistingue l’amministrazione penitenziaria erano tutti ingredienti di una miscela esplosiva che solo intenzionalmente si sarebbe potuto ignorare. Da notare che la stessa persona che sul posto, l’8 marzo, aveva diretto, coordinato e predisposto le operazioni di evacuazione del Sant’Anna col nulla osta al trasferimento dei detenuti era stato inserito dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia nella squadra del Dap incaricata di far luce sulle rivolte e sui pestaggi avvenuti in quei mesi nelle carceri italiane. In pratica, Bonfiglioli, avrebbe dovuto indagare sul suo stesso operato, ennesimo esempio lampante di istituzione che si autoassolve.
Nel mese di ottobre le famiglie di due degli otto detenuti morti rappresentati dall’avvocato Luca Sebastiani – già avvocato di Hafed Choucane al momento del suo decesso in carcere- presenteranno ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’archiviazione del fascicolo, decisa lo scorso giugno. Al fianco dell’avvocato delle famiglie ci saranno anche l’avvocato Barbara Randazzo e il professor Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, che tra l’altro hanno patrocinato e vinto il caso alla Cedu sul G8 di Genova. Ma anche dall’altra parte del mediterraneo qualcosa si muove, il primo dicembre scorso la magistratura tunisina ha aperto un’indagine per le morti sospette dei detenuti di Modena.
Le indagini modenesi proseguono e a novembre si viene a sapere di 70 indagati tra i detenuti che hanno preso preso parte alla rivolta con le accuse di tentata evasione, devastazioni, saccheggio e incendio. Nel frattempo, dopo gli esposti di altri detenuti, è stato aperto un fascicolo, per tortura e lesioni aggravate a carico di alcuni appartenenti alle forze dell’ordine intervenuti a Modena nel marzo 2020; al momento sono sette le persone iscritte sul registro degli indagati tra cui pare spicchi un nome di rilievo.
Indagini avvolte ovviamente dal «più stretto e doveroso riserbo», ma a quanto risulta, alcuni detenuti avrebbero riconosciuto diversi agenti, consultando un album fotografico che gli inquirenti hanno sottoposto loro quando sono stati ascoltati come persone informate sui fatti.
Purtroppo a due anni di distanza, la situazione nelle carceri italiane sembra non avere prodotto alcuna riflessione. Perché quanto accaduto nel carcere di Modena e il silenzio che l’ha circondato sono un messaggio che non può essere ignorato tanto facilmente. Perché se è vero che lo Stato in quei giorni, ha picchiato, sparato, torturato o omesso anche solo di soccorrere persone detenute considerandole alla stregua della monnezza o dei tossici buoni a nulla (nell’indifferenza totale dell’opinione pubblica, bisogna dirlo) non è detto che un domani non sia pronto ad allargare l’utilizzo di quei metodi anche ad altre fette di società.
Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 24
16 pagine | 24x34cm | Carta Nautilus Classic gr 100 | 2 colori
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Last modified: 25 Mag 2022