Esistono ancora vignaioli che si preoccupano solo di fare il vino buono.
Pietro, in Valtellina, è uno di questi. E, per andare a trovarlo, occorre attraversare, calpestare e assaporare un territorio vitivinicolo leggendario
LUCE DI SELVA
Testo e fotografie di Laura M. Alemagna
L’ultima volta.
L’ultima c’eravamo visti a Monza, sotto il tendone de La Volpe e l’Uva al Boccaccio, l’edizione prima dello sgombero (rioccupato, altrove, ma rioccupato), sul prato del grande campo da calcio. Il caldo di luglio non aveva fatto indietreggiare nessuno, anzi il folto gruppo di commensali chiedeva «Bottiglie! Bottiglie!» e agognava le nostre, chiavennasca, Valtellina Superiore Costiera delle Cicale e Sforzato di Valtellina Cicogna, giacché, come da tradizione, a pranzo eravamo accanto a Pietro Selva, vignaiolo di Castione Andevenno, provincia di Sondrio. Massimiliano Murgo, de Il Vino e le Rose faceva andare l’acqua della pompa sulla tettoia telata, tentando di raffreddare gli animi, ché la manifestazione era ancora a porte chiuse e la giornata di mercato lunga e canicolare. La bottiglia dovemmo tenerla stretta.
Con Pietro Selva, non abbiamo molte occasioni di vederci, capita a La Terra Trema, di lui nessuna fotografia, selfie sui social o via whatsapp. Non lo puoi seguire, non ha account, no profili, no pagine FB, no follower, la sua azienda non ha un sito. Puoi chiamarlo al telefono, se ti risponde, oppure scrivergli email o sms. Così quando c’è occasione prendiamo il tempo di lunghe chiacchierate, lo incalziamo con domande, proviamo a farci raccontare «dicci del vino», «delle tue terre», «questa chiavennasca», «questa Valtellina». Lui è di poche parole, laconico, asciutto, come il suo Sforzato. Accarezza la bottiglia e al più usa sorrisi, espressioni curiose, smorfie, ghigni, sommessi sospiri «eeeh», e versa.
Anche per questo modo di fare decidiamo di muoverci, di andare verso questa Selva oscura. Se non lui, diranno i suoi luoghi.
Primo fu un racconto.
I tratti della Valtellina che conosciamo sono stati disegnati, prima che su geografie calpestate materialmente da incontri e volti di persone passate a La Terra Trema, dal loro lavoro, dal confronto che hanno costruito con i propri luoghi. Le patate blu, i cereali alpini, il grano saraceno, la segale, la rete di relazioni costruita da Patrizio Mazzucchelli di Raetia Biodiversità Alpine, la capacità di risanare. E dopo di lui si aggiunse altro, i modi e i vini di Jonatan di Orto Tellinum, di Stefano Beltrama, de Il Gabbiano, di Triasso e Sassella, e sì di Pietro, Pietro Selva. Volti, vini, frutti, semi hanno costruito un insieme di piccole porzioni di questo tratto di Lombardia, disposta su un centinaio di chilometri (di cui una quarantina di quelli vitati), che si è fatta pluriverso, susseguirsi di storie, identità sovrapposte, che salgono, si inerpicano. Un’estensione complessa che segue forse questo movimento delle terre in salire, questo alzarsi impegnativo, duro, difficile.
Primo, dunque, fu Patrizio Mazzucchelli a raccontarci di Valtellina. Preso da un lavoro avviato da oltre un decennio atto a recuperare i terrazzamenti di quota per la coltivazione storica di cereali e grano saraceno, coltivazioni perse, in disuso, abbandonate per le solite colture più immediate e redditizie, tra queste le vigne che, a un certo punto, hanno determinato le economie di territorio. Patrizio si era dato a un lavoro di cura, di recupero, di sedimentazione del sapere iniziando le nuove generazioni al ritorno, invitandole a riprendersi quelle terre e il loro senso.
Valtellina, storicamente, è strada, luogo di comunicazione e passaggio, per secoli ha visto passare l’Europa, in un transito continuo. L’agricoltura è questione intrinseca, secolarizzata, con alti e bassi e una predisposizione naturale e obbligata alla parcellizzazione che oggi è anche motivo di vanto ma per molti secoli è stata sintomo di coercizione, di soggiacenza a proprietari terrieri, di terre date in gestione, dell’oppressione della rendita. Ma c’era quella bella sponda, alta, così ben soleggiata, e l’agricoltura dedicata al vino ha detto «fermatevi». E così è stato.
«Abbiamo attraversato l’Adda».
Superiamo l’Adda e avvertiamo Pietro del nostro arrivo con sms che non leggerà. La strada è tortuosa e sale, ma prima, nel seguire il fiume, si avverte il presagio di una Valtellina fin troppo attraversata. Strade affollate, camion, capannoni, centri commerciali. Nel salire il discorso cambia, certo, i paesi si fanno più radi, piccoli, discontinui, li attraversi in auto e quasi intravedi i nuclei familiari a ogni portoncino, persone sull’uscio, chine nell’orto, sedute a parlare, alle finestre. La radice antropica di queste terre emerge. Prima è venuta la terra. L’uomo qui ha edificato il proprio domicilio su altezze dopo averne fatto stretti terrazzamenti agricoli. La terra alle vigne ha determinato la sorte di tutti, intorno ad esso si è costruito quel che serviva, stretti terrazzamenti, strade, dimore per contadini.
Le vigne si presentano, verticali, quasi delle facciate, scintillano i cd luccicanti per cacciar via selvatici intrusi.
Arriviamo da Pietro, nella frazione di Vendolo a Castione Andevenno. Lui ci accoglie con Ricki, che è la sua piccola, sorridente, copia, occhiali a specchio e ghignetto paterno. Il panorama è ampissimo, Valtellina e Valtellina e Valtellina, le microzone che Pietro indica a braccio «Rosso di Valtellina», «Valtellina Superiore», «la Sassella», le Orobie, il fiume, le vigne, i campi, un infernale agglomerato di capannoni che brulica, immancabile.
Pietro gestisce la sua azienda dal 2010, ha tutti i sette vigneti nella fascia mediana, dai 430 ai 520 metri sul livello del mare. Mentre la fascia bassa parte da 300 e arriva a 430 e quella più alta da 520 arriva a 700. Principalmente siamo nella zona del Valtellina Superiore, ove al suo interno c’è la sottozona della Sassella, area scoscesa, faticosa, ben soleggiata che da Castione Andevenno arriva sino a Sondrio. Le viti hanno 40/50 anni, in media.
«La differenza qui la fa l’altitudine», nel suolo «non c’è una differenza sostanziale, solo nella Sassella il terreno è più roccioso», tanti speroni di roccia a rendere il lavoro ancor più ostico.
Finora il massimo della resa lo ha raggiunto nel 2019 con 110 quintali in un ettaro e mezzo ma Pietro non vinifica tutto per sé, il 30% delle uve prodotte viene conferito a Rainoldi, un produttore ben più grande a Chiuro. La media per Pietro è di 80/85 quintali, dipende dalle zone, alcune son più fertili e ricche, in altre il terreno è ben più avaro. Ad ogni modo lui produce sole 4000 bottiglie l’anno. Questa è la sua misura, di più non potrebbe fare, di più non riuscirebbe a vendere.
Apre alle nostre spalle le porte della cantina, piccola di appena due locali. Vinifica in vasche d’acciaio. Il Rosso di Valtellina doc Dosso del Cuculo affina un anno nelle barrique più vecchie, il Valtellina Superiore docg Riserva matura tre anni in botte, lo Sforzato di Valtellina docg Cicogna si eleva cinque mesi in barrique usate e poi quindici mesi in botte, e persino il Rosato Libellula igt Terrazze Retiche di Sondrio fa un anno di barrique, difatti c’è un piccolo locale dedicato solo a questa pratica. La stanzetta ospita due botticelle da cinque ettolitri che prese nuove una decina di anni fa. Pietro preferisce invece acquistare le barrique usate, dopo molti passaggi, di sei o sette anni, prende quello che offre il territorio. Negli anni ha anche provato a evitare il passaggio in botte per l’acciaio, ha voluto sperimentare, ma il risultato non rende.
Da dove cominciare.
Per tracciare una storia moderna del vino di Valtellina, Pietro inizia da Marcel Zanolari, «un pazzo» capace di proporre venticinque vini diversi e di coltivare un centinaio di uve su una decina di ettari. È stato il primo a scegliere di lavorare in regime biologico. Oggi vinifica anche in anfora. Ha tracciato un solco. Negli ultimi anni è innegabile, si percepisce un gran fermento, gente giovane che riprende in mano vigne abbandonate da anni, «e meno male» che avviene. Piccolissime aziende come la sua o di più, «non sono più il più piccolo», ma per qualcuno è solo l’ennesimo investimento, un secondo lavoro, un hobby. «Preferisco chi lo fa a tempo pieno», dice secco.
Pietro lavora riducendo al minimo gli interventi in vigna da almeno cinque anni, dopo aver provato e sperimentato «i modi biologici» per sei, sette anni. Quando ha iniziato assecondava la cultura del luogo, che era quella del padre.
Generazioni di agricoltori che «non si fidavano» della terra, del clima, delle piante. Preventivamente trattavano, perché poteva succedere qualunque cosa e l’uva bisognava portarla a casa. Oggi governa quattro vigneti di proprietà e tre dati in affitto. Negli anni sempre di più sono quelli che gli chiedono di prendere in cura le proprie vigne. Soprattutto anziani, che non riescono a star dietro a quel lavoro così faticoso.
Le vigne abbandonate sono molte in zona, sono piccole porzioni, piccole deflagrazioni sul territorio, troppo piccole e frastagliate, troppo distanti per interessare qualcuno, neanche i grossi proprietari, che cercano solo accorpamenti unici. Pietro prende solo dove riesce ad arrivare. Non fa differenza tra proprietà e affitto quando lavora ma vuole rimanere in zona. C’è stato, sì, un periodo in cui prendeva appezzamenti anche distanti, in Sassella a Sondrio e a Berbenno. «Ne buttavo in giro di tempo solo per gli spostamenti. Non ne valeva la pena e la qualità era inferiore». Alla fine ha lasciato gli appezzamenti lontani dal comune di Castione.
«Devi prendere il top».
I suoi vini vengono tendenzialmente sempre dalle stesse vigne. «Solo per lo Sfursat mi vado a scegliere l’uva migliore», per l’ultima vendemmia è stato in quattro vigne, nel 2016 solo in una ad esempio.
Vendemmia manualmente, l’uva per l’appassimento la gestisce da solo, il resto al massimo con cinque, sei giovani del luogo. È difficile insegnare a qualcuno un lavoro fatto bene, è difficile trovare qualcuno disposto a quei ritmi. L’uva è raccolta in bigonce (le brente, gloriose per questi luoghi) e portata giù manualmente. Sapremo che delle ragazze che ha conosciuto a Eufemia, andranno ad aiutarlo per la vendemmia imminente.
Con la parcellizzazione delle vigne Pietro può raccontare parte della grande varietà del territorio: Rosso di Valtellina doc Dosso del Cuculo, Valtellina Superiore docg Costiera delle Cicale, Sforzato di Valtellina docg Cicogna e Terrazze Retiche di Sondrio Rosato igt Libellula.
«I vini leggeri? Come fai con le annate così?», i tempi sono cambiati e cambiati i vini, potentissimi, a un certo punto trent’anni fa i rossi di Valtellina li vollero di dodici gradi, dieci e mezzo, «vendemmiavano con l’uva acerba!», lo chiedeva, questione annosa, il mercato. Un vino più semplice. Ora non solo si è colto l’inganno mellifluo della richiesta, ora qui hai l’ulivo, gli agrumi, le palme, hai tempi e temperature diverse.
«Vi faccio una trifolata?».
A chiedere è Elena, moglie di Pietro, appena lasciata la cantina per la casa di famiglia, posta al piano superiore.
Pietro ama camminare, andare per funghi e andare per vigne. La mattina nel suo giro quotidiano ha trovato i suoi bei tre, quattro porcini sul sentiero «eran lì, sul sentiero, cosa facevo? Li lasciavo? Devo sempre portare a casa». Eeh… il raccoglitore viticoltore…
«E i pizzoccheri li avete già mangiati?». Sul tavolo la verza dell’orto, le patate, lo spicchio d’aglio, la salvia, il burro, giallissimo per le erbe e per i fiori che mangian le vacche di lì.
Il pane è scuro di segale, una volta le ciambelle si facevano col buco per appenderle al sottotetto e conservarle, ci dice ancora Elena. In padella i mac, chiamati così solo a Berbenno, un composto di purea di patate, formaggio, fagiolini, cipolla, un po’ di latte e olio. In Valtellina, son detti taroz.
Fuori un fungiat è dato per disperso e gli elicotteri sorvolano di continuo la valle, li vediamo dalla finestra della cucina, sembrano libellule. «Qui impazziscono», letteralmente, impazziscono per i funghi, partono al mattino, prima dell’alba, quando è troppo presto, quando è troppo buio, quando non si vede nulla, per arrivare prima degli altri ma poi succede che si perdano.
Le zie di Elena, ci dice, sono infuriate, vanno a funghi anche loro e subiscono la concorrenza di stranieri super tecnologizzati, dotati di frontalino, scorrettissimi.
Il vero specialista della zona è «il Calamita» che va fuori di notte, anche alle 4:30. Un vero professionista, lui non si fa fregare dalle flotte milanesi che vengono qua a «rubare i suoi funghi»: «stiamo parlando di quintali!». Per lui è come andare in trance, come vedere oltre, lui ha il tocco, è «il Calamita».
Pietro racconta mentre indossa un grembiulino armato di termometro, aspetta i 210°C e lancia gli sciatt nel pentolino colmo di olio bollente. Nuotano come piccoli girini quelle saporite palline di grano saraceno e formaggio locale.
A tavola il servizio di posate d’argento di famiglia che alla fine nessuno ha mai usato, neanche alle feste. Il papà ha sempre lavorato, tutti i benedetti giorni, neanche a Natale si fermava. Era un piccolo agricoltore, gestiva una piccola azienda multifunzionale, aveva le galline, il maiale e i conigli, aveva le vigne, ha sempre avuto le mucche, avevano il latte e facevano anche del formaggio. «Alcuni dei prati che vedete giù sono i miei». Non tutto però perché qui è tutto diviso come per le vigne, tutto parcellizzato. Nel campo lavora lento un ranghinatore, avanti e indietro.
Le prime tre edizioni a La Terra Trema Pietro le ha fatte da solo, l’ultima è venuta Elena ad accompagnarlo «non ho neanche cenato, ma ero felicissima». Elena insegna alle scuole dell’infanzia, ha una passione per quel territorio che conosce e ama attraversare. La invitiamo a Eufemia, il mercato agricolo che organizziamo ogni mese, ben più tranquillo e vivibile. Ci proverà e porterà i suoi manufatti di lana, altra sua passione. Ci consiglia la visione del documentario di Ermanno Olmi, che in effetti sconosciamo. Commissionò quel lavoro la Banca Popolare di Sondrio e fu pronto nel 2009. Il documentario è un delicato affresco della «viticoltura eroica valtellinese», prende le mosse da “L’avventura in Valtellina” di Mario Soldati e da “Ragionamenti d’agricoltura” dell’agronomo settecentesco Pietro Ligari. Pietro ci farà dono di alcune copie di un corposo notiziario sui vini e le vigne di Valtellina, memoria di un convegno avvenuto nel 1996. Tra firme e relatori Enzo Biagi, Luigi Veronelli, Attilio Scienza.
“Valtellina” scatena da decenni l’attenzione di voci autorevoli, certo anche preziose. Capitali commerciali e industria alimentare sul “marchio” ci sguazzano da tempo. Indubbio che vi sia un abuso conclamato della denominazione, si tratti di vino, di carni salate o altri preparati. Ma accanto a produzioni dozzinalissime, oltre lo zebù, tra case, frazioni, paeselli, rimane viva e forte una consapevolezza estrema della storia contadina dei propri luoghi con un corposo numero di piccoli, piccolissimi artigiani, vignaioli, contadini che produce e autoproduce, che conserva, tutela, rinvigorisce, quel patrimonio sterminato, materiale e immateriale che la Valtellina ha generato. Un patrimonio che si identifica con competenza nelle differenze anche impercettibili tra zone e microzone, un patrimonio che vive nello scambio e nel confronto in maniera nuova, con scrupolo e puntiglio. La pecora Ciuta, la pesteda di Grosio, la differenza tra un subisso di castagne diverse, maron, catot, fugasceri, ruser, da far bescecch (su brace) o ferudi (lesse). Un patrimonio che non si ferma al prodotto finito ma che vi ruota intorno, radialmente a tutto tondo, perché così dev’essere così è sempre stato. Nulla per caso, nulla si butta. Pecora, lana, cardatura, coloritura, castagne, farine, muretti in pietra, pali di legno di castagno, erbe selvatiche. La Valtellina custodisce dunque un tesoro sterminato, noto e meno noto, meno evidente oppure acclamato ed eclatante di cui gli autorevolissimi vini sono sì l’espressione più palese e raccontata ma anche meraviglioso contrappunto quotidiano per tutte quelle sue produzioni.
Potenze e pietanze.
Pietro apre il rosato, annata 2019, «completamente diverso da quella precedente», del tutto secco, meno acido. Non lo diresti, ma Pietro ama sperimentare, ne parla spesso, sul rosato può osare, per quelle note piacenti che può provare a declinare. Passa, questo rosato, nove mesi in bottiglia dopo aver maturato per un anno in barrique, «che lo arrotonda un po’». È squisito quello che beviamo. Seguiranno i suoi rossi, i suoi pezzi grossi. Dosso del Cuculo Rosso di Valtellina, da chiavennasca, rossola e pignola, una potenza al palato, Costiera delle Cicale Valtellina Superiore, stesse uve ma da uno dei cru di Castione e Cicogna Sforzato di Valtellina è chiavennasca in purezza, da uve lasciate ad asciugare e appassire in fruttaio, sforzate, per l’appunto. A Pietro piace che i suoi vini siano puliti, armoniosi, eleganti anche. Piace che la potenza di questa sua terra salti fuori senza fronzoli, nelle sue qualità più terrene, terragne. In acidità e robustezza.
«D’inverno potrei far andare le pecore».
Lasciamo la tavola per andare in vigna. La giornata è bella, solare. Abbiamo proprio voglia di affrontarle quelle altezze, nonostante il pasto sostanzioso. Seguiamo Pietro e il suo trattore.
La prima vigna l’abbiamo incontrata all’andata, impossibile non notarla.
L’altezza dalla strada la percepisci tutta, lavorarla è atto eroico, è evidente, piaccia o meno l’aggettivo, sia o meno abusato. Pietro frequenta le vigne il più possibile, cerca di tenerle pulite, rifinisce di continuo, sfalcia l’erba solo col decespugliatore. In vigna Pietro è euforico, loquace, entusiasta. Conosce le sue piante, va a trovarle, le scruta grappolo per grappolo. «Questa è rossola, rosata», rimarrà così come la incontriamo, non si caricherà molto di più di colore, più acida e fruttata rispetto alla chiavennasca, dal grappolo compatto, sodo dove «non passa niente». Sul fronte opposto il grappolo, spargolo, ha acini molto più radi, è chiavennasca, nebbiolo di Valtellina.
I grappoli cambiano colore terrazza per terrazza, salendo e salendo ancora. Le vigne sono un nido, asilo di biodiversità, di varietà coltivate nei secoli, perdute, sconosciute, dimenticate: la pignola dal grappolo stracompatto nei suoi acini serrati tra di loro, la brugnola, che appassita si portava anche a tavola. Il 90% però è chiavennasca, oggetto del cuore di Pietro: «va’ che bei grappoli», «alato, questo grappolo ha due ali».
Salire con attenzione e cura.
Ci abbassiamo, chiniamo il capo e le spalle, passiamo tra i filari e sotto. Terrazze storiche, a scandire il su e giù, gradini su lastre sottili che spuntano fuori dal muretto di pietra come schegge, come spine. È tutto lavoro manuale, la rottura della roccia, il trasporto sulle spalle, la messa a punto. Ingegneria contadina secolare che mette al riparo a tutt’oggi, se ben conservata, il fondovalle. Guardare sotto è un capogiro. I pali di legno di castagno messi a sorreggere le vigne Pietro dice che sarebbero da cambiare, sono vecchi. La questione è complessa, vorrebbe fossero ancora come si usa qui, di legno, ma se son fatti male marciscono e troppo pochi sono quelli in grado di farli per durare. Il cemento è brutto ma è per lui un obbligo in alcune vigne, permette anche di tenere le piante più in alto rispetto al terreno. In Sassella in un vigneto li ha messi così.
Il panorama si apre su vigne, bosco e abbandono. «La strada ha cambiato tutto» su un fondo valle già poco vocato, umido, portato al ristagno, con uve troppo cariche di zuccheri.
Attraversiamo a tappe le altre vigne, sorprende sempre la possibilità di apertura allo sguardo. Non fosse per quella chiazza grigia di cemento in basso, parrebbe un quadro e in parte lo è già. La luce arriva splendida e continua, sembra lambire questa sponda di continuo, senza interruzione. Al tramonto toglie il fiato, lampante.
Rifornita la cantina, con la promessa di rivederci a Eufemia, prendiamo la strada di casa. L’ora è quella giusta, avrebbe detto Mario Soldati: «per chi arriva dalla via del lago alle sei del pomeriggio da giugno a settembre», «l’ora trionfale della Valtellina».
«Il sole era quasi al tramonto ma pareva alto: perfettamente coassiale alla strada che percorrevo, prendeva d’infilata il canyon dell’Adda. Batteva in faccia sulle vigne terrazzate, sui muretti, sulle rocce, sugli altipiani, i boschi, le creste della sponda retica (…). Indorava i campi di granoturco, il fiume, i villaggi, i piccoli stabilimenti industriali, gli speroni montuosi, le creste della montagna orobica (…). Illuminava tutto, splendeva tutto, riduceva dovunque l’ombra a solchi, a segni, a quelle minime incisioni nere che bastano a dare il senso della realtà dello spazio». È una sensazione che condividiamo, a ritroso. Una luce grandiosa, su ogni cosa e poi il lago, marea immensa.
Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 22
16 pagine | 24x34cm | Carta Nautilus Classic gr 100 | 2 colori
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Last modified: 2 Mar 2023