Avevo capito che da una parte c’erano gli innocui valsusini e dall’altra i feroci black bloc. Mi ero immaginato un corteo di innocui indigeni indignati che scorreva pigramente (poco telegenico, politicamente scomodo), mentre austriaci, francesi, milanesi e altri foresti estremisti facevano la guerra (che rende sempre in tv e nei comizi).
Poi, parlando con alcuni di loro (valsusini? black bloc?), ho scoperto che il confine tra manifestanti-gitanti e antagonisti-battaglieri era così labile da apparire quasi un’invenzione giornalistica, una semplificazione auto-assolutoria per il mondo della politica, dell’economia, delle istituzioni.
Che lassù ad assediare il cantiere in realtà c’erano anche i figli dei valligiani e pure qualche padre.
Che i vecchi indicavano ai giovani i sentieri nel bosco per sorprendere la polizia, e le signore incazzate nere per la terra espropriata incitavano i “ragazzi”. Sì, li chiamavano così.
Si discuteva molto, nel corteo, su ciò che stava accadendo, ma in tanti (mi dicono) hanno spalleggiato i “ragazzi” arrivati col casco e le maschere anti-gas, memori dello sgombero della Maddalena.
E’ molto più facile, più tranquillizzante, raccontarsi la storia della frangia di estremisti che si sposta dal G8 alle manifestazioni contro l’FMI approdando infine alla Val di Susa, in una grottesca tournée del terrore. Così, ancora una volta, riescono a parlare d’altro, visto che i sì-Tav di solito balbettano quando si entra nel territorio dei numeri, delle ragioni, dei dati, degli argomenti tecnici ed economici, della gente che si oppone pacificamente da 20 anni.
Basta notare il sospiro di sollievo con cui Bersani ha potuto condannare le violenze senza entrare nel merito della questione e senza citare i tanti sindaci in corteo.
Basta sfogliare il Corriere della Sera di lunedì 4 luglio, che apriva il giornale con “Assalto alla Tav, 188 agenti feriti” e proseguiva con questi titoli in successione: “Scontri e feriti al cantiere Tav. Assalti in stile paramilitare”; “Tra i sei operai circondati: Ci chiamano infami ma noi che colpa abbiamo?”; “Maalox e ammoniaca, la guerriglia dei black bloc”; “Condanna dal Colle: inaudite aggressioni”; “Dove c’è violenza, inaccettabile ogni ambiguità”. Non una sola fotografia delle famiglie in corteo, dei sindaci, dei passeggini, dei bambini, degli attivisti di mezza Italia, delle (stra)ordinarie persone qualunque della Val di Susa che non sognano una regressione bucolica in un’immaginaria età dell’oro (quella roba la lasciano volentieri ai leghisti, che amano il folklore) e non pretendono di sostituirsi alle istituzioni democratiche (parliamone: la democrazia è bella perché perfettibile), ma reclamano dignità e sognano un altro modello di sviluppo, in cui la funzione delle comunità locali non sia solo quella di accettare pacificamente gli interventi compensativi o indicarne di migliori. E’ da qui che bisogna partire. E’ qui che si gioca un pezzo del nostro futuro. E’ su questo (argomento faticoso, per chi è abituato a fare scelte a brevissimo termine) che vorremmo ascoltare esperti, tecnici, politici, visionari.
Forse in Val di Susa sta accadendo qualcosa di inquietante, che dovrebbe spaventare (questo sì) le istituzioni e i commentatori istituzionali: la rabbia che diventa ribellione anche fisica, la frustrazione che degenera in odio. Penso a quell’operaio di 21 anni che neanche sa che cos’è il Leoncavallo, e che vive ormai lontano dalla valle in cui è nato, ma che domenica era lassù con i “ragazzi” per “difendere la sua terra”. Penso agli anziani signori che incitavano i giovani antagonisti a lanciare sassi e a sradicare le protezioni del cantiere. Altro che black bloc. Gli anarchici di nero vestiti sono una questione di ordine pubblico, che si risolve facilmente, alla vecchia maniera, con manganelli e arresti. I valligiani inferociti, invece, sono una realtà a cui lo Stato non può replicare con i fumogeni ad altezza uomo.
I comitati no-Tav hanno provato a dire queste cose (trovate la conferenza stampa su www.globalproject.info), a raccontare la loro versione dei fatti, a dire che i ragazzi col caschetto e la maschera anti-gas per lo più erano valligiani. Ma nessuno li ha ascoltati. Si sono auto-denunciati, parlando di legittima difesa, ma nessuno ha rilanciato le loro parole. Non rientrano nello schema. Fanno paura.
Questo gioco (pericoloso) già lo conosciamo. E’ più facile chiudersi in un fortino e “difendere lo stato di diritto” contro i violenti (la non-violenza non fa spettacolo, e comunque per combatterla ci vogliono idee e ragioni), piuttosto che uscire tra la gente e rispondere alle obiezioni mosse non solo dalla Val di Susa, ma da una larga fetta dell’opinione pubblica nazionale (larghissima, se stringiamo il campo a quelli almeno vagamente informati sul tema), compresi esperti super-partes, economisti, docenti universitari “contro”, che stanno ancora aspettando un argomento diverso dal mantra “ce lo chiede l’Europa” (sapeste quante cose ci chiede la contestatissima Europa sul piano dei diritti e dei doveri, della lotta alla corruzione e all’evasione fiscale, delle leggi contro i monopoli e i privilegi, del pluralismo dell’informazione, del rispetto di immigrati e rom… Tutte cose poco monetizzabili).
Fabrizio Tassi
(5 luglio 2011)
Last modified: 20 Ott 2019