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Intorno al Bosco

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Testo e illustrazioni di Elena Campa

Quando ci è stato chiesto di scrivere per L’Almanacco su questo fattaccio del Bosco d’Arneo eravamo molto indecisi, noi non sappiamo scrivere, di solito ci occupiamo di immagini e non di parole.
Poi mi sono convinta che avevo delle cose da dire, ma non solo su questo argomento. Volevo parlare del contesto in cui questo fatto accade. Dell’intorno. Intorno al bosco e intorno a noi.

Siamo nella provincia di Lecce, il cui nome deriva dal fatto che il territorio era anticamente ricoperto di boschi di querce, in particolare di lecci, distrutti durante il medioevo per fare spazio alla monocoltura degli olivi, da cui si faceva olio lampante, olio che serviva a illuminare le strade di tutto il mondo.
Nel 2020 decidiamo di vivere a Lecce. Il covid e le restrizioni in arrivo ci hanno dato il coraggio di restare, la fortuna ha voluto che fossimo già qui.
Il panorama non è idilliaco, siamo nel post Xylella. Qui l’apocalisse c’è già stata.

Ettari di uliveti completamente secchi e ogni notte interi campi sono dati alle fiamme.
In macchina per chilometri, campi incendiati, ulivi che sembrano corpi, infuocati, bruciano per giorni e giorni. Succede sempre, e per un bel po’ di tempo. Succede d’inverno, ma ancora di più d’estate, quando le fiamme si espandono ai terreni incolti, facile preda degli incendi, abbandonati da generazioni di emigranti, figli e nipoti di chi aveva piccoli e grandi terreni, per l’olio, le rape, le cicorie. Senza questo ricambio generazionale, da maggio a settembre la puzza di bruciato è una costante, camminando a piedi o in macchina, appena fuori dalla città. 

Quando arriva il covid, il mondo si ferma e ovunque si pensa all’apocalisse. 
«Ne usciremo migliori» dice qualcuno.
Ma è solo un’illusione e ce lo ricordano ogni giorno i cumuli di spazzatura che si formano nella notte lì dove c’era un tempo un cassonetto, perché è arrivato il ritiro porta a porta, ma solo per chi paga la Tari. Rimane fuori chi non la paga, chi abita in un abuso edilizio non dichiarato, chi abita in un deposito agricolo ma anche chi resiste cocciutamente ai cambiamenti. Gioie e dolori di una vita moderna.

«BAM!»
Viviamo a San Cataldo, d’inverno, senza riscaldamento, si sta bene con il camino, e la xylella ha donato tanta legna a basso costo. Una località marina abbastanza brutta, “case di mare”. Un posto dimenticato da dio, per lo più abbandonato. Ci sentiamo spesso nel bel mezzo del niente, usciamo per andare a camminare nella pineta e poi nella macchia. Potremmo farlo nudi e nessuno se ne accorgerebbe. La natura sembra approfittare di quella quiete, vediamo stormi di uccelli e animali selvatici, raccogliamo erbe.

Nella pace di questo deserto invernale, in pieno covid, «BAM!», tremano le finestre. Carri armati giocano a fare la guerra e sparano al poligono di Torre Veneri, vanno avanti per giornate intere. E lo faranno ancora oggi, da mesi, da anni nel poligono militare in piena Area S.I.C. (Sito di Interesse Comunitario), uno dei tratti più selvaggi del litorale, dove si spara sempre, anche nel mare, anche se è vietato. 

Il botto è molto forte, non so se come in guerra, se è proprio quello il rumore che si sente, ma i carri armati ci sono davvero e sparano in continuazione per giornate intere. I cani sono terrorizzati. Gli animali selvatici come se la passeranno?
Hanno provato a fermarli, il Consiglio di Stato aveva imposto uno stop ma la Regione Puglia ha decretato che possono continuare, hanno fatto una nuova Valutazione di Incidenza Ambientale. E hanno continuato.

LE RADICI CA TIENI
Nell’estate del 2008 la gente ballava entusiasta e inconsapevole un testo di Caparezza che parlava di turismo di massa, ILVA, ENI, incendi, eroina, caporalato. 
Quando inizio a scrivere questo testo, sul palco di Sanremo, Alessandra Amoroso con i Boomdabash fa accapponare la pelle di vergogna, un mix di ostentazione delle radici ca tieni e di caratterizzazione semicomica della tamarraggine meridionale. Amadeus conclude l’esibizione dicendo «Viva il Salento!»
Ma in che senso?
La Notte della Taranta e la sua trasformazione sanremizzante dice chiaramente di come l’immagine di questo territorio sia fagocitata da dinamiche tristemente commerciali.
Ad oggi è successo molto di peggio, è arrivato il G7 a Borgo Egnazia, in provincia di Brindisi, nei pressi di Fasano. Rubo le parole dall’articolo impeccabile di Chiara Romano su Napoli Monitor:

«(…) un resort di oltre sedici ettari che imita le masserie e l’architettura dei “borghi” ma è a tutti gli effetti un artificio senza storia costruito dal nulla. Diverso è il tono con cui lo descrivono i creatori: Borgo Egnazia è “l’essenza dell’accoglienza pugliese, la struttura è interamente realizzata in tufo grezzo e pietre locali, lavorate dalle abili mani di esperti maestri della tradizione». Oltre lo storytelling, il resort non è altro che un villaggio finto-antico, con strade, ville dai nomi imbarazzanti (“casetta bella, corte deliziosa, borgo splendida”), piazza per sagre danzanti, piscine, bar e ristoranti costruiti per vivere con un minimo di tremila euro a notte».

Una porzione di tronco d’ulivo costituisce il leggio con i microfoni da cui parla la presidente Giorgia Meloni, mentre una decina di alberelli d’ulivo nelle fioriere decorano la sala. «Io ho voluto che la serata di ieri fosse tutta una serata tradizionale pugliese: c’erano i panzerotti, c’erano gli artigiani, c’erano le signore che facevano le orecchiette a mano, c’era la taranta, c’erano le luminarie che si mettono nelle feste religiose. C’era la Puglia come la conosciamo noi. Davvero io sono stata fiera di vedere i leader del G7 a bocca aperta. Aperta, ma anche insomma delle volte anche meno, per i sapori, per i gusti, per l’identità, no?». I giornalisti ridono di rimando come se questo G7 fosse un evento culinario. Ma in quella serata, c’era il grande esodo verso il nord e le città? C’erano i treni a binario unico? C’erano i malati del reparto oncologico di Taranto? C’era la centrale a carbone di Cerano (prima in Italia in termini di costi causati dalle emissioni inquinanti), le discariche abusive, gli incendi sistematici negli uliveti distrutti? Di sicuro non c’erano e non ci potevano essere i giovani scappati altrove, i posti in ospedale, le case in affitto a prezzi umani, le spiagge libere, i polmoni verdi e gli uliveti. E mentre penso a Carmelo Bene mi domando quale sia questa tradizione pugliese. Non esiste, esiste la tradizione della Grecia salentina, della Bassa Murgia, del Gargano, ma una tradizione globale è solo un marchio. Non esiste nemmeno la taranta (se non il ragno), non è niente, esiste la pizzica, per quanto i grandi eventi stiano esportando un feticcio che non conserva niente della cultura popolare.

Era da molti anni che volevo tornare a vivere a Lecce, ma il mio compagno non era convinto.
Quello che mi spingeva a farlo era proprio l’idea che stavo diventando come quei turisti colonizzatori che ci andavano solo per consumare d’estate, senza capire un cazzo di quello che succede davvero, ballando Caparezza e i Boomdabash con un bicchiere di plastica in mano. E si aggiungeva la consapevolezza che questa terra aveva un disperato bisogno d’aiuto.
Vedevo da lontano le proteste contro il TAP, il gasdotto che a partire dall’Azerbaigian doveva passare dall’Albania fino alle coste di San Foca, attraversando l’Adriatico per circa 105 chilometri nello Stretto di Otranto con un comodo tubo sul fondale. 
Vedevo il TAP comprare quante più persone possibile, finanziare di tutto, persino folli e lussuosi progetti di case editrici milanesi che fotografano architetture fantasiose, tra un bagno e uno spaghetto con i ricci e la vacanza pagata. 

Il Movimento No TAP è stato multato, processato, represso con la forza. Dopo tanti anni di lotta, dopo varie valutazioni di impatto ambientale, dopo lo studio dei dati tecnici e scientifici dalla parte degli insorti, anche questo gasdotto è stato realizzato.
Non bastasse, quando compare la Xylella succede di tutto. Eradicazioni forzate di alberi monumentali, rimedi fai da te, stregonerie, fitofarmaci obbligatori, persone incatenate agli alberi, per finire con il secco.

Il deserto si fa spazio, gli ulivi iniziano a disseccare, sempre di più. Alberi come prosciugati, senza una foglia per chilometri e chilometri. Della monocoltura imperante della campagna salentina non rimane che legna da ardere.

Questo è il contesto intorno al quale dovrei parlare di quello che sta per succedere al Bosco d’Arneo, bosco mediterraneo secolare, area di 200 ettari, interessata da vincoli ambientali, di notevole importanza naturalistica e paesaggistica, ricca di biodiversità, di specie e habitat protetti. 

DOV’È QUESTO BOSCO?

 Si trova nell’area interna di un grande anello perfettamente circolare: una pista di collaudo ad alta velocità per automobili di lusso, di proprietà della Porsche, con diametro 4 km.
Incredibile ma vero, la pista nasce negli anni Settanta per volontà della FIAT, e negli anni è stata implementata e migliorata fino ad arrivare a quello che è adesso: il Nardò Technical Center.
Qui si testano le nuove automobili che andranno sul mercato, con piloti e tecnici che arrivano da tutto il mondo, oltre venti piste e impianti, circa quaranta officine di diversa tipologia. Un’area a cui non si può accedere a causa della segretezza dei test sulle automobili ad alta tecnologia che si svolgono all’interno.

Per questo serve un piccolo sforzo e immaginare un antico bosco di querce, di Lecci, protetto da mura, all’interno di questa enorme pista circolare ricadente nel S.I.C. Palude del Conte – Dune di Punta Prosciutto e nel S.I.C. Porto Cesareo, area protetta che contribuisce a mantenere viva la rete di biodiversità europea per le sue caratteristiche ambientali, secondo la Direttiva Habitat del 1992. Qui, tra le molte specie e habitat protetti (tra cui la lecceta di circa 200 ettari) vi sono in particolare degli habitat prioritari, i “percorsi substeppici di graminacee e piante annue”, che dovrebbero essere conservati con la massima attenzione. L’area è quindi interessata da vincoli ambientali molto stretti che sembravano sufficienti a preservarlo da ulteriori scellerati interventi antropici. 

Intorno alla pista si estende la campagna salentina, fatta di macchia mediterranea e una sconfinata monocoltura affetta da Xylella; qualche deposito agricolo e molte abitazioni rurali, masserie, qualcuna abbandonata, altre, invece, presidi di resistenza agricola, simboli di autosufficienza alimentare. Qui e là, le tracce del turismo di massa estivo. Stabilimenti balneari, voglia di ballare reggae in spiaggia. Karaoke guantanamera.

PER ANDARE DOVE?
Nel 2023 la Regione, d’accordo con i comuni di Nardò e Porto Cesareo, approva la realizzazione di un “Piano di Sviluppo industriale” del Nardò Technical Center: molte novità e implementazioni delle infrastrutture al suo interno, un grande investimento sul territorio da parte di Porsche e, dulcis in fundo, l’abbattimento del bosco. 

Il progetto trova giustificazione nelle motivazioni economiche e sociali, come la creazione di opportunità di lavoro che genererebbero un maggior flusso di denaro, in un’area che vive sostanzialmente di turismo. A queste si aggiungono motivazioni di rilevante interesse pubblico come “la salute dell’uomo e la sicurezza pubblica”, per la realizzazione di una nuova e più ampia stazione degli addetti alla lotta antincendio e un centro medico con eliporto. Non è dato sapere per andare dove. Nessun ospedale nei paraggi è dotato di pista di atterraggio per elicotteri.

La contraddittorietà di questo aspetto del progetto è sul piatto e implica la devastazione di un habitat prioritario tutelato dalle direttive comunitarie, un Piano che aveva già ottenuto una valutazione negativa nel 2022 da parte della sezione delle autorizzazioni ambientali della Regione, e che per questo è stato costretto a pensare a una misura di compensazione.

COME COMPENSARE LA DISTRUZIONE DI UN BOSCO SECOLARE? 
Porsche ha pensato a un rimboschimento di 507,4 ettari basato sull’impianto di dodici essenze selezionate contro le quattrocentoventi specie vegetali attestate all’interno del bosco secolare. Inutile dire che poche specie di piante giovani e bisognose di acqua e cure non possono rimpiazzare il bosco, che è una comunità ecosistemica complessa, autonoma e autosufficiente. 

Inoltre, il progetto prevede che la costruzione delle nuove piste avvenga ben prima che le nuove piante messe a dimora per la presunta compensazione siano adeguatamente cresciute, ma questo è ampiamente in conflitto con le linee guida nazionali per la Valutazione di Incidenza (VINCA paragrafo 5.2), le quali stabiliscono che «le misure di compensazione vanno concordate e attuate antecedentemente rispetto all’inizio degli interventi che possono interferire negativamente sul sito». Appare chiaro, dunque, come le compensazioni siano solo specchietti (green) per le allodole, agitati dalle istituzioni e da Porsche, mentre si prepara il terreno a colate di cemento e asfalto. Un via libera al consumo di suolo e alla sua impermeabilizzazione, non temendo l’impatto che potrebbero avere fenomeni come le alluvioni. Inoltre il nuovo bosco nascerà su terreni agricoli, e i pochi agricoltori e allevatori rimasti si troveranno con i terreni espropriati.

Tutto questo avviene in nome della crescita economica senza che la popolazione sia stata consultata, in un territorio, l’Arneo, che negli anni ’50 è stato già̀ strappato al latifondo, grazie alle dure lotte di braccianti agricoli che hanno occupato le terre.
Nasce qui il Comitato Custodi del Bosco d’Arneo, grazie al quale, insieme ad altri gruppi di sostegno, qualcosa si muove. Ne hanno parlato di recente moltissime testate giornalistiche, anche in tv. Il comitato è supportato da Italia Nostra e dal Gruppo di Intervento Giuridico, ma non solo: si sono recentemente mobilitate le tre maggiori associazioni tedesche per la tutela della natura NABU, BUND e LNV, che hanno manifestato e scritto una lettera aperta a Porsche per avere spiegazioni riguardo il progetto di sviluppo e per chiedere l’immediata sospensione dei piani di disboscamento. 

Le tre associazioni, con un totale di 700 mila membri, hanno costituito l’“Alleanza d’Azione contro la distruzione dell’ambiente e della natura da parte di Porsche, a casa e all’estero” e si rivolgono a Oliver Blume, Ceo del Gruppo Volkswagen, e a Markus-Christian Eberl, Ceo di Porsche Engineering, proprietaria del Nardò Technical Center. «Siamo inorriditi e senza parole davanti al vostro progetto di distruggere circa 200 ettari di pregiato bosco di lecci per ampliare la pista di prova», scrivono dal Baden-Württemberg, evidenziando come il piano sia in netto contrasto con gli obiettivi di sostenibilità dell’azienda e comporti conseguenze drastiche e irreversibili per il Salento. In poche settimane la petizione in lingua tedesca ha raggiunto 83000 firme, che si aggiungono alle 45000 già raccolte dal comitato.

Ed ecco che, dopo queste mobilitazioni, si accende un piccolo barlume di speranza per il Bosco: nella serata del 27 marzo è stata diffusa la comunicazione della Regione Puglia riguardo la decisione del presidente Michele Emiliano di sospendere l’accordo di programma sul Nardò Technical Center per l’ampliamento delle piste di collaudo Porsche. 

Tutto ciò contrasta col silenzio assordante delle istituzioni locali, con la loro chiusura al dialogo e accettazione acritica di promesse di sviluppo, prosperità e altri miracoli. Il semplice consenso a concedere come contropartita il nostro Bosco d’Arneo la dice lunga sulle effettive capacità, disponibilità e interesse di certe amministrazioni a proteggere un bene comune.

A maggio la protesta si è fatta festa. Cittadine e cittadini, stanchi di vivere in un mondo che mette il profitto al primo posto, di istituzioni miopi che invece di fare il pubblico interesse difendono gli interessi delle multinazionali, hanno portato in piazza non la loro rabbia, ma i propri principi e tanta bellezza.

Fondamentale in tal senso è stato il contributo dei numerosi artisti internazionali che in segno di solidarietà hanno donato le proprie opere, attraverso la collaborazione con la Free Home University e la Murga Los Espositos, arrivata compatta da Napoli.

Oltre alle persone che hanno preso la parola, tante le realtà e le associazioni del territorio che sono scese in piazza a sostegno della causa. La manifestazione è stata bella ed è stata forte. Il Comitato Custodi del Bosco d’Arneo ha fatto davvero un gran lavoro.

L’accordo è momentaneamente sospeso, mentre dal TAR di Bari si attende la sentenza al ricorso che il Comitato ha depositato il 22 gennaio scorso con Italia Nostra e Gruppo di Intervento Giuridico, denunciando il danno ambientale irreversibile in un’area protetta, la mancata valutazione delle alternative e il mancato dibattito pubblico.

Tornando a me, negli ultimi anni vissuti da emigrante, ho evitato questa zona d’estate, a causa degli effetti del turismo di massa con traffico devastante e spiagge sovraffollate. Ci sono ritornata solo quando ho scoperto un campeggio che era un’oasi in quel casino estivo. Una fattoria didattica che si occupa di ecoturismo, un posto con una storia fatta di riforestazioni vere, a carico del proprietario, figlio delle occupazioni d’Arneo, contro il latifondo della riforma agraria. Un luogo dove gli spazi sono autocostruiti collettivamente e semi-autogestiti, dove si sperimenta l’agricoltura organica rigenerativa e si pratica agricoltura biologica nell’ottica dell’autoproduzione. 
Qui il rumore della pista nella notte lascia sconvolti, sembra di stare al Gran Premio di Monza
Questo è il tempo assurdo in cui viviamo. E per me molte istanze sarebbero da ripensare del tutto, a partire dai modi e dalle dinamiche della produzione alimentare, che è la base di quello che siamo e da cui l’esistenza di tutti gli esseri viventi dipende.

Qualche tempo fa, riguardo le proteste degli agricoltori dell’ultimo periodo, Giovanni mi ha detto: «bisognerebbe entrare all’Eurospin con i trattori!».
Giovanni, mio gentile e intelligente amico, è agricoltore resistente, che si sostiene autoproducendo le materie prime del cibo che consuma e vende. Materie prime trasformate e cotte in forni autocostruiti, dove il fuoco è alimentato dalle sue potature.

Io, che adesso non mi sento più emigrante, ho ripreso un terreno di mio nonno, di cui sto imparando a prendermi cura. Spesso mi mancano le conoscenze che non ho potuto ereditare e che magari avrei dovuto rinnovare, visto che il boom industriale le ha cancellate speculando su abusi di veleni nella terra. La mia coscienza non è pulita, ma inizio a sentirmi meglio.

La superficialità con cui Amadeus diceva «Viva il Salento» a milioni di telespettatori è il simbolo del nostro tempo. #weareinpuglia e #vitalenta sono la bandiera che rende fuorviante la visione di quello che avviene fuori dalle narrazioni “cool” del turismo.

Come possiamo difendere i territori, salvaguardando ambiente e identità, in un modo economicamente sostenibile per questa società? Vorrei lasciare questa domanda aperta anche se la risposta per me ci sarebbe, ma di certo non è una strada facile e, in molte condizioni, nemmeno percorribile senza mettere in discussione completamente le proprie vite e le proprie scelte.




Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 33
20 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org

Last modified: 18 Ago 2024

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