Di Laura M. Alemagna e Paolo Bellati
Fotografie di Laura M. Alemagna
In questi mesi migliaia di agricoltori si sono mobilitati con i loro trattori per cercare di salvare il proprio reddito, il proprio lavoro e la propria storia. La politica li ha ignorati, stigmatizzati, ha cercato di strumentalizzarli. I media ne hanno fatto una narrazione stereotipata e superficiale. Abbiamo incontrato quattro giovanissimi agricoltori del territorio abbiatense coinvolti in modo attivo nelle mobilitazioni
In questi mesi le cronache hanno mostrato con grande superficialità le proteste dei trattori.
Al governo la destra ha cercato di strumentalizzare l’onda, esibendosi in una vicinanza social e grottesca, cercando di gestire le mobilitazioni coi propri interlocutori, contenendo la protesta con la promessa a parole di atti concreti.
Le sinistre istituzionali e di “movimento” hanno per lo più tenuto le distanze etichettando questi agricoltori come fascisti dal diserbo facile.
In generale è mancato un confronto a quattr’occhi. Per paura, fatica, incapacità di comprendere le soggettività in campo e le questioni che queste mobilitazioni mettono sul piatto.
Le mobilitazioni di questi mesi sono molto più stratificate, complesse e importanti di quello che media e politica riescono a dire e fare. Offrono la possibilità di interrogarci sullo stato dell’agricoltura ad esempio, ci dicono che l’agricoltura contadina è a rischio estinzione perché l’agroindustria se la sta mangiando del tutto.
In Italia sono rimaste poco più di un milione di aziende agricole. Negli ultimi quarant’anni sono scomparse due aziende su tre. Negli ultimi venti il numero di aziende agricole si è dimezzato. Alla veloce diminuzione del numero di agricoltori fanno da contrappunto aziende sempre più grandi con una superficie media che è più che raddoppiata. Il 60% della superficie agricola è in mano all’8% delle aziende. Le imprese che hanno più di 100 ettari, pur rappresentando l’1,6% del totale, possiedono il 30% dei terreni. Dall’altra parte le aziende agricole con meno di tre ettari, che sono il 51% del totale, lavora meno del 6% di tutta la terra coltivata. La superficie agricola totale coltivata è in ogni caso diminuita, erosa da abbandono, cementificazione e installazione di impianti energetici (fotovoltaico e pale eoliche). Diminuiscono, infine, sempre di più i terreni agricoli di proprietà degli agricoltori che li coltivano (il 50% del totale, sarebbe molto interessante sapere di chi è la proprietà dell’altro 50, temiamo che non siano semplici agricoltori).1
Nel nostro percorso di comprensione e vicinanza alle lotte degli agricoltori abbiamo condiviso alcuni momenti di mobilitazione e fatto lunghe chiacchierate. In questo caso abbiamo incontrato quattro giovanissimi agricoltori del territorio abbiatense coinvolti in modo attivo nelle mobilitazioni di questi mesi. Quattro giovanissimi lavoratori della zootecnia. Abbiamo attraversato i loro luoghi di vita e, al Folletto 25603, ci hanno raccontato il loro lavoro, la loro passione, i vissuti, i desideri, le preoccupazioni. Lo abbiamo fatto nei giorni di pioggia intensa che sono gli unici che permettono loro una pausa, una quiete.
Daniele, è nato nel 1998 e ha conseguito un diploma all’alberghiero. Vive e lavora a Ozzero, con Marco, suo fratello. Si alza tutte le mattine poco prima delle sei per andare a mungere la trentina di vacche di famiglia. È il suo compito, due volte al giorno, mattina presto e tardo pomeriggio. Gli piace proprio. Pulisce la stalla, dà loro da mangiare, segue i parti e interviene se va storto qualcosa. A quasi ogni vacca ha dato un nome. È serio, silenzioso, non ama parlare, una presa di posizione o un sorriso non glieli cavi di bocca nemmeno con le pinze ma segue attento quello che si dice, l’orecchio è teso e in testa cova di sicuro mille pensieri e molte torsioni nello stomaco. Oltre alle vacche, ha un ricco orto che segue con lo zio e la sorella, tre capre e molte tra galline e oche a razzolare sull’aia. Aiutato dai suoi amici ha da poco costruito un posto dedicato ai vitelli.
Il resto della banda tarda ad arrivare. Sulla strada per il Folletto25603 abbiamo visto il corteo di trattori di ritorno dal presidio a Milano. Ci chiediamo se non fossero tra quelli. Se non ci abbiano bidonato.
E invece no, Nicolò, Marco e Michele arrivano, con calma, sorridenti e rumorosi.
Michele, Nerone.
È un ragazzone del 1996. Ha incrociato Paolo al presidio di Melegnano e poi se l’è tirato dietro fino a sotto il Palazzo della Regione cercando di issare la bandiera dei pirati sul trattore di Marco. Sulla strada, inseguendo la lunga fila di mezzi agricoli diretta a Milano ha raccontato di una passione innata, della voglia di cambiare vita, della relazione vitale che ha con la campagna, con le «bestie» e la terra. Lui lavora come dipendente, sotto padrone. La sua famiglia vive di agricoltura da almeno cinque generazioni, il padre è in pensione e l’azienda la portano avanti gli zii.
«Le bestie, le vacche in lattazione, la stalla, la campagna», questo è quello che hanno, quasi tremila pertiche2, tra bestiame, mais, prati stabili e erba medica. «Riso non ne facciamo, facciamo tanto latte». Il loro latte lo ritirano le cooperative del territorio, e va a finire ai grossi caseifici industriali della zona che qui pullulano, ci fan «zola, primosale e la crema. Fan quelle cose lì».
Nerone ha iniziato come casaro nel più noto e blasonato dei caseifici di gorgonzola, taleggio e crescenza dell’abbiatense, ha lavorato al seguito «dei vecchi casari, storici», anzianissimi, di quelli che non mollano. Aveva ripetuto per due anni la prima ad agraria ma non era cosa sua, ha detto «basta, inizio a lavorare».
La campagna lo ha cresciuto. Fin da piccolissimo ha cavalcato trattori, ha spalato merda, fatto legna, dato da mangiare alle «bestie» in cascina, dai suoi. A quindici anni ha deciso di andare a lavorare fuori da casa: «mi alzavo alle 3 del mattino prendevo il motorino e andavo a fare i formaggi fino a mezzogiorno». In estate, nei pomeriggi, continuava, facendo il fieno dal padre che lo metteva sul motoranghino della BCS «a vultà al fen».
Ricorda il mestiere del casaro con ardore. Lo stupore della materia lattea in trasformazione ancora lo entusiasma. Il latte, il bollore del bianco, le coagulazioni magiche. Addentare la pasta del formaggio in lavorazione lo mandava in estasi. Oggi non sa dirci se gli riuscirebbe di fare il formaggio, passato ormai oltre un decennio, ma di sicuro gli piacerebbe. Ama guardare le vacche al pascolo. Sa che qualcuno, in zona, ci prova, lo ha visto da lavorante, ma per lui è una cosa bizzarra, aliena. Il latte, l’agroindustria lo vuole bianco, accecante. Quel latte buonissimo intriso del verde-giallo di prato le cooperative lo rimandano indietro, oppure te lo pagano ancora meno. E annuiscono tutti.
«La campagna chiamava». Lascia il caseificio per noia dopo due anni, stare sempre chiuso in laboratorio non gli piaceva più.
Passa da un allevatore di Abbiategrasso. «A mungere!», gli gridano dietro tutti in coro.
Si trattava di circa duecento bestie in lattazione e tante pertiche. «Facevo tre ore e mezzo alla mattina e tre ore e mezzo la sera. A volte, se c’era da fare, mi mandavano in campagna col trattore». Lasciato anche questo ha passato in rassegna buona parte delle aziende del territorio, confrontandosi ogni volta con storie diverse e situazioni contrattuali improbabili.
Oggi aspetta che gli scada il contratto con una ditta che ha anche macchine per movimento terra, escavatori e fa strade, cantieri, «cose grosse». Ma vedrà di cambiare ancora.
Nerone ha seguito queste mobilitazioni da dipendente, ha seguito chi gli ha dato lavoro più o meno precariamente. Lo ha fatto perché si sente di appartenere a quella storia. Perché non vuole mollarla. Coltiva il sogno di un’azienda sua, pochi animali, poche bestie, magari al pascolo. Ha visto farlo, ha visto come cambia il benessere degli animali. Gli piace più per questo, perché gli animali se la passano meglio, che per la conseguente qualità del latte. Che sia migliore il prodotto è quasi secondario.
Nei sogni di Nerone non c’è spazio per enormi trattori all’avanguardia, tecnologici, non ci sono fruttuosi tendoni col biogas, o centinaia di vacche. Nella testa di Nerone c’è un lavorare ridimensionato, a tu per tu con gli animali e un po’ di terra.
Nicolò.
Ha il fisico da rugbista, dritto, sempre in piedi. È nato nel 2005, la cascina di famiglia la gestisce con il padre, il nonno e lo zio. Prima erano in affitto, dal 2018 hanno sedici ettari di proprietà e un centinaio di vacche. Fa il trattorista ma ogni tanto va in stalla per sostituire il papà e lo zio. Il lavoro lo fanno tutto loro: non c’è modo di avere dipendenti o di pagare qualche terzista, non ce la farebbero.
Al mattino frequenta meccanica all’IPSIA. Se ne intende, sistema i suoi trattori, ci mette le mani. Gli altri confermano «è bravo».
Pempem e Nerone, quando possono, lo raggiungono in cascina. Immersa in pieno Parco del Ticino, a meno di cinquecento metri dal fiume. Vanno giù per i magnifici boschi.
Nicolò vorrebbe lavorare anche fuori, lavorare per altri per aiutare l’economia familiare.
Ha partecipato ai presidi per portare le istanze dei suoi. Si sentono impelagati da burocrazia e dai costi di produzione. Ha partecipato ma ci crede poco. Qualunque desiderio di cambiamento sembra impossibile. «Bisognava fermarsi tutti, chiudere i rubinetti, incrociare le braccia».
Avrebbe voluto più coesione, più unità, una condivisione di intenti. «Invece ci diamo addosso l’uno all’altro, ci rubiamo l’acqua» gli fa eco Marco.
Marco, Marchino, Pempem.
Classe 2000. Lavora nell’azienda di famiglia, per altre aziende agricole e come operaio per contoterzisti. Ha una grande passione per i motori e le trazioni integrali. Col trattore sa fare ogni cosa. Col trattore è arrivato a Milano fin sotto il Pirellone per protesta. Lo conosciamo fin da quando era bambino e ha sempre avuto il culo attaccato lì. Arrivato in quinta superiore, ad agraria, ha mollato la scuola.
L’entusiasmo che aveva da ragazzetto oggi l’ha perso. Sente addosso l’ansia di chi sta per prendere le redini della sua vita e del suo lavoro e non ci sta dentro. Il padre, da ragazzo, si è costruito stalla e sala mungitura con le sue mani, è di quelli che non fan un giorno di ferie all’anno, accumula fatica, dolori, ernie, alzatacce e sogna di allargare la stalla e qualche vacca in più. Dopo anni di lavoro senza vacanze e senza ferie, si è fermato un solo giorno, per andare con i figli al presidio a Melegnano. La loro azienda agricola lavora anche per le aziende del territorio perché del solo latte (ritirato a 49 centesimi al litro) delle poche vacche di proprietà, spese e burocrazia, non si campa.
Questo territorio ancora agricolo così vicino alla metropoli sente la spinta dei cambiamenti del mondo. Le stagioni sconvolgono le cose per come erano. Sono caotiche, non danno più punti di riferimento. Le chiamano terre d’acqua ma qui, in certi anni è stato atroce. Tutto bruciato dall’assenza di piogge. Tutti a farsi la guerra gli uni con gli altri per raccattare più acqua possibile dalle falde. È stato feroce. Molti hanno mollato. Infatti intorno a loro stanno comprando tutto. Mandante è un’agricoltura grandissima, sterminata, che accaparra ogni cosa, che annusa l’aria di crisi e sbrana chi stenta, chi arranca, anche di poco. Le piccole produzioni tendono a sparire. O ti reinventi o sei spacciato.
Questi ragazzi non sanno neanche a quale generazione famigliare appartengono, che siano alla quarta o alla quinta poco gli importa. Sono l’ultimo filo diretto con quella civiltà contadina che è scomparsa con la “rivoluzione verde” dal dopoguerra in avanti. Il loro sapere è inestimabile, fa parte di questo tempo, ma arriva da secoli passati, tramandato da generazioni, sulla t/Terra, nel campo, in cascina, non in un’aula di università, non in un investimento mirato di una start-up rurale, non in una scelta bucolica di mezza età o post-pensione. Sono implicati, come tutta la popolazione mondiale, in questo modello economico e sociale digitale, ma appartengono alla parte più lontana e irrequieta, che crea resistenze, sfide e agisce forme di vita altre e distanti da quelle dominanti e mortifere. Piantagrane, diavolacci, malnatt. Fanno parte della cultura materiale e dell’agricoltura contadina. Forti della loro natura possono scardinare ordini enormi, ma occorre che ci sia coscienza viva della misura delle relazioni economiche, sociali e culturali che stabiliscono.
Marco, Nicolò, Daniele e Michele conoscono a menadito il proprio mestiere, ci sono cresciuti dentro ogni sacrosanto giorno. Conoscono il territorio che vivono e lavorano, conoscono tutti, fattori, proprietari, cascine. Sulla base della loro esperienza hanno impressa in testa una mappa della produzione agricola locale e delle pratiche nitida come in pochi altri. L’hanno disegnata attraversando i terreni in cui son vissuti e al servizio delle mille aziende che li han presi al lavoro. Sul trattore, a terra, convenzionali, biologiche, biodinamiche, grandi, piccole, immense, tutte hanno avuto bisogno di loro. È certo che su queste mappe lo spazio buono per questi quattro ragazzi sembra essere poco. Crediamo, però, che si possa prenderlo, bisogna cominciare a immaginare come.
Le mobilitazioni dei trattori, intanto va detto, hanno avuto il pregio di aprire spazi di relazione e discussione, anche se a noi straniere. Auspichiamo che diventino luogo di conflitto e progettualità.
1 Dati ISTAT 2020 www.istat.it/it/files//2022/06/REPORT-CENSIAGRI_2021-def.pdf e Alessandro Bartolini in “La gestione della terra e concentrazione dell’agricoltura in Italia: i dati”, L’antidiplomatico, 20 febbraio 2024 www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/27477-alessandro-bartoloni-la-gestione-della-terra-e-concentrazione-dell-agricoltura-in-italia-i-dati.html
2 Un ettaro corrisponde a poco più di 15 pertiche milanesi
Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 32
20 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
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Last modified: 13 Mag 2024