Di Silvia Chiarantini
da Parkour. La mia cucina, sconfinata e in movimento, Porto Seguro, Firenze, 2023
Ma noi, la cui patria è il mondo come per i pesci il mare, benché abbiamo bevuto nel Sarno prima di mettere i denti e amiamo Firenze a tal punto da patire ingiustamente, proprio perché l’abbiamo amata, l’esilio, noi appoggeremo la bilancia del nostro giudizio alla ragione piuttosto che al sentimento. Certo ai fini di una vita piacevole e insomma dell’appagamento dei nostri sensi non c’è sulla terra luogo più amabile di Firenze; tuttavia a leggere e rileggere i volumi dei poeti e degli altri scrittori che descrivono il mondo nell’assieme e nelle sue parti, e a riflettere dentro di noi alle varie posizioni delle località del mondo e al loro rapporto con l’uno e l’altro polo e col circolo equatoriale, abbiamo tratto questa convinzione, e la sosteniamo con fermezza: che esistono molte regioni e città più nobili e più gradevoli della Toscana e di Firenze, di cui sono nativo e cittadino, e che ci sono svariati popoli e genti che hanno una lingua più piacevole e più utile di quella degli italiani.
De vulgari eloquentia, Dante Alighieri
Mi ci sono voluti anni – ma che dico, decenni! – per trovare il coraggio di rimettere in bocca un cucchiaino di zuppa inglese.
Quando ero piccola, per il pranzo di Natale, le zie preparavano questo dolce in una grande ciotola di vetro. Nonostante quei voluttuosi strati di crema e cioccolato che si intravedevano, là dentro si nascondeva un perfido e sadico imbroglio: una spugna rosa del colore e dal sapore dello spirito.
Ogni anno, prima del momento più bello della giornata – lo spacchettamento dei regali – quell’inferno mascherato da bontà veniva, senza possibilità di opposizione, recapitato nel mio piatto con il preciso intento di darmi fuoco. Alla prima cucchiaiata, sulla lingua divampavano le fiamme e quello spirito satanico scendeva nella gola e poi giù nello stomaco per risalire su per le narici e incendiare anche l’aria che respiravo. Avrei voluto liberare la mia lingua infuocata in faccia alle zie e a tutti i parenti che glorificavano, nel giorno della nascita di nostro Signore, quel preparato venuto direttamente dalle cucine di Lucifero.
Nonostante il trauma infantile, con l’avanzare dell’età le mie papille gustative devono essersi convertite al diabolico, tant’è che oggi ho una passione sfrenata per tutti i dolci con l’alchermes.
L’alchermesse, come si pronuncia da queste parti, aveva una folta schiera di seguaci negli anni Settanta e Ottanta. Me lo ritrovai perfino un’estate al mare all’Isola d’Elba nascosto dentro un dolce che si chiamava la schiacciata briaca e si era insinuato perfino nella vetrina della pasticceria di via Senese dove, accanto a quei biscottini di frolla con la marmellata d’albicocche che mi piacevano tanto, svettava il satanico zuccotto fiorentino ripieno di gelato e avvolto in un pan di Spagna intriso di quel liquore rosa.
In quegli anni l’alchermes era di gran moda, o forse era l’unico ingrediente che offriva il mercato per dare una sferzata di colore a semplici ciambelloni e torte fatte in casa. Era una sorta di primitivo preparato per cake design!
Si tratta di un dolce casalingo e tradizionale che si cucina per le feste e che noi fiorentini – che abbiamo un’indole patriottica e la presunzione di inventare e far tutto meglio degli altri – siamo fermamente convinti sia una prelibatezza tipica della nostra amata Firenze; ma, come dice il nostro sommo poeta e concittadino, cercheremo di metter da parte questa nostra superbia e «appoggeremo la bilancia del nostro giudizio alla ragione piuttosto che al sentimento».
Giovanni Righi Parenti, nei suoi testi sulla cucina toscana, attribuisce l’invenzione della ricetta ai cuochi senesi che, nel 1522, prepararono una zuppa di pan di Spagna, crema e cioccolato in occasione di un importante incontro diplomatico a cui partecipò il Duca di Correggio. Questi, estasiato dalla bontà del dolce, si concesse a più morbide mediazioni. Fu così chiamata zuppa del duca in suo onore o, forse, in onore di Alfonso Piccolomini duca d’Amalfi, nominato da Carlo V capitano generale a Siena e anche lui grande estimatore di questa zuppa.
Un’altra ipotesi – che rintraccia in Emilia il luogo d’origine della zuppa inglese – risale al tempo dei duchi d’Este, nelle cui cucine sarebbe stata rielaborata la ricetta inglese del trifle, dessert a base di crema, pan di Spagna e sherry, di cui avrebbe fatto grandi elogi un diplomatico di corte di ritorno da un viaggio a Londra.
Altri sostengono che fu una cameriera inglese al servizio di una nobile famiglia che risiedeva sulle colline di Fiesole, sopra a Firenze, a inventare la zuppa inglese.
Da dove arrivi questa ricetta è difficile stabilirlo, ma noi fiorentini abbiamo almeno la certezza che una deliziosa zuppa inglese veniva servita, fin dall’inizio del Novecento, nell’antica sala da tè e pasticceria Caffè Doney, nel centro della città. Si dice che fosse chiamata zuppa degli inglesi perché il locale era il punto di ritrovo di quella numerosa colonia di inglesi che risiedeva al tempo a Firenze. Purtroppo, questo storico locale non esiste più, altrimenti sarei corsa a prendermi un piattino di questa zuppa, visto che difficilmente si trova in vendita nelle pasticcerie.
Ad avvalorare l’origine fiorentina della zuppa inglese è il fatto che l’alchermes, l’ingrediente che la caratterizza, veniva prodotto proprio a Firenze. E da qui prendiamo la via, del tutto tortuosa e in salita, di un’altra questione assai ingarbugliata sull’origine di questo liquore dal gusto speziato e dal colore vermiglio. Firenze è sempre stata una città di grandi traffici di spezie che arrivavano dall’Oriente. Ne è testimonianza l’effigie di un moro con turbante sulla facciata di quella che nel Cinquecento si chiamava l’Officina del Saraceno, oggi una farmacia prospiciente Piazza del Duomo. E addirittura una strada, via degli Speziali, e la corporazione Arte dei Medici e Speziali, istituita nel Trecento e a cui era iscritto niente meno che Dante. Le spezie avevano a quel tempo un grande valore curativo e medicamentoso di cui alchimisti, monaci e suore studiavano proprietà e sperimentavano miscele.
L’alchermes sarebbe stato inventato nel Quattrocento a Firenze, nell’officina farmaceutica dei frati domenicani del convento di San Marco, affiliata alla più conosciuta farmacia di Santa Maria Novella. Per prepararlo venivano utilizzati chiodi di garofano, cannella, noce moscata e la cocciniglia della quercia, un piccolo insetto da cui, una volta essiccato, veniva estratto il carminio, un colorante rosso intenso. In alcuni libri ho trovato scritto che già nel 1233 le suore fiorentine dell’Ordine di Maria avevano iniziato la produzione di un liquore che aveva i medesimi ingredienti.
L’Antica farmacia di Santa Maria Novella di Firenze ne continua, ancora oggi, la produzione e sulla confezione c’è scritto che il termine alchermes deriva dall’arabo quirmiz, che significa “colore scarlatto”, e che le origini di questo liquore risalgono al XV secolo. Addirittura, è scritto che l’alchermes è riconosciuto «prodotto tradizionale della regione Toscana». Mi piace molto la storia di questo liquore, assurto a prodotto tipico e identitario toscano, che viene preparato con spezie importate dall’Oriente e che porta un nome che non ha alcuna derivazione da latino, volgare, italiano o fiorentino!
La parola araba al qrmz o al quirmiz, a seconda dell’arabo classico o dialettale che si prende a riferimento, indica il colore rosso intenso e anche quell’insetto che noi chiamiamo cocciniglia. Come spesso succede con i termini provenienti dalla lingua araba, il sostantivo latinizzato fonde l’articolo al (il) con il sostantivo. Lo stesso è successo con il termine alambicco, dall’arabo al-imbiq e con alcool, dall’arabo al-kuhl che indicava la finissima polvere di antimonio utilizzata come trucco per gli occhi. La parola è stata poi latinizzata in alcool e, per traslato, è stata a lungo usata per riferirsi a polveri talmente sottili da essere volatili; per estensione è diventato poi il termine identificativo delle sostanze che si disperdono e quindi alcool inteso come spirito, la parte volatile o intangibile della materia.
Riavvolgendo il nastro per tornare alla golosa zuppa bisogna ricordare che ne esiste una versione con i savoiardi, che è quella riportata nell’Artusi, e una con il pan di Spagna, come quella di cui parla Righi Parenti. Io preferisco quest’ultima, perché se una gran zuppa mappazzona deve essere, che lo sia con quanto di più spugnoso si possa avere! Nella versione ancor più antica che si trova nel Manuale del cuoco e del pasticcere di raffinato gusto moderno, pubblicato nel 1834 e scritto da Vincenzo Agnoletti – credenziere, pasticcere e liquorista alla corte di Maria d’Asburgo Lorena, duchessa di Parma e moglie di Napoleone – si propone di guarnire la zuppa con una «marenga cruda, o al forno». Non posso certo esimermi dal seguire quest’ultimo consiglio, che aggiunge ulteriore lussuria a una zuppa che, a parte il nome, non ha certo un carattere sobrio e dimesso.
Superati i traumi infantili, sono oggi perdutamente innamorata della zuppa inglese, un dolce che nel titolo sembra venire dall’Inghilterra, tra i propri ingredienti ha un pane nato in Spagna da un pasticcere genovese, una crème pâtissière inventata oltralpe, un cacao che ha fatto un lungo viaggio dal sud America e un liquore che pare uscito da lontani caravanserragli delle storie di Le mille e una notte, ma che è prodotto dai fraticelli in un convento nel cuore di Firenze.
Una vera esibizione di parkour culinario!
La mia personale versione della zuppa inglese è un po’ meno zuppa e un po’ più “mappazza”.
Anche se più elaborata nella preparazione – si dovrà fare una crema per volta e attendere che si freddi prima di versarne altra per lo strato superiore – a me piace così, con le creme compatte e somigliante a una torta a strati. Per la copertura di meringa vi servirà un termometro da cucina e una pistola a fiamma per caramellare.
Le dosi sono per almeno 10 persone… se deve essere una festa, che festa sia!
PER IL PAN DI SPAGNA
8 uova
200 g di zucchero semolato
120 g di amido di mais
120 g di farina
PER LA BAGNA
250 g di acqua
180 g di zucchero semolato
450 g di alchermes
PER LA CREMA (una dose)
380 g di latte
½ baccello di vaniglia
3 tuorli d’uovo
180 g zucchero semolato
35 g di amido di mais
40 g di cacao amaro scuro (per la crema al cioccolato)
PER LA MERINGA
220 g di zucchero semolato
60 g di acqua
120 g di albumi
Per prima cosa preparate il pan di Spagna, perché dovrà essere ben freddo quando si andrà a utilizzare. L’ideale sarebbe farlo il giorno prima, così da lasciarlo asciugare bene. Rompete le uova in una ciotola e unite lo zucchero. Mescolate con le fruste elettriche per 10 minuti, ma non alla massima velocità. Se nell’impasto si formeranno delle bolle grandi, significa che la velocità è troppo alta. Quando il composto sarà triplicato di volume unite l’amido di mais e la farina setacciata, poca per volta, mescolando piano e poco con una spatola. Versate quindi l’impasto in una teglia dai bordi apribili e del diametro di 25 cm, rivestita con la carta da forno. Cuocete a 180 °C per 50 minuti lasciando il forno sempre chiuso!
Nel frattempo preparate la bagna facendo bollire l’acqua con lo zucchero in un pentolino per 10 minuti. Lasciate raffreddare lo sciroppo così ottenuto e poi aggiungete l’alchermes.
Tagliate il pan di Spagna per ottenere due dischi alti 1,5/2 cm e sistemateli ciascuno in un piatto piano. Con un cucchiaio versate sopra la bagna di alchermes a più riprese, lasciando che il pan di Spagna l’assorba lentamente. Procedete con la bagna su entrambi i lati. Fate questa operazione con calma, così da valutare quanto sciroppo serve; non eccedete di parsimonia perché potrebbe non penetrare fino al centro, ma non siate neanche troppo generosi perché un pan di Spagna molto umido potrebbe rompersi.
Per preparare una zuppa inglese a strati compatti è importante versare la crema ancora calda, così da distribuirla uniformemente, e poi lasciarla raffreddare. Per far questo dovremo fare tre volte la crema!
A questo punto è necessaria un po’ di organizzazione. Riprendete la teglia utilizzata per il pan di Spagna e foderatela con un foglio di carta da forno sul fondo e con una striscia lungo il bordo, lasciando che lo superi di qualche centimetro. Sistemate il primo disco, che dovrà essere quello di fondo del pan di Spagna, e cominciate a preparare la prima crema versando il latte in un bricco, aggiungendo mezzo baccello di vaniglia aperto per lungo e i suoi semi – estratti facendoci passare sopra la lama di un coltello – e poi mettetelo sul fuoco e fategli prendere il bollore. Nel frattempo, raccogliete in una pentola i tuorli con lo zucchero, mescolate bene con la frusta e poi incorporate l’amido di mais. Versate pian piano il latte ben caldo, mescolate con le fruste e trasferite la pentola sul fornello lasciando cuocere la crema a fuoco basso. Appena si sarà addensata, versatela subito sopra il primo disco e aiutatevi con una spatola per distribuirla uniformemente. Lasciate asciugare la crema per 1 ora prima di iniziare a preparare la seconda, ripercorrendo il medesimo procedimento e aggiungendo alla fine il cacao in polvere (per questa versione potete non aggiungere la vaniglia). Una volta che la crema al cioccolato sarà cotta, versatela sopra lo strato di crema e distribuitela uniformemente con delicatezza. Lasciate raffreddare per 1 ora. Se non avete particolare fretta, tra un passaggio e l’altro riponete la zuppa nel frigo per far compattare bene le creme.
A questo punto posizionate il secondo disco e preparate la terza e ultima crema, che andrà distribuita sopra lasciandola poi riposare come fatto per le altre.
La ricetta potrebbe anche concludersi qui, con una bella spolverata di cacao amaro al momento di servirla; altrimenti potete proseguire con la preparazione della meringa italiana. Se non volete rischiare, dovrete avere a disposizione un termometro per alimenti, che per questa preparazione è indispensabile.
In un pentolino fate bollire a fuoco basso lo zucchero con l’acqua. Nella planetaria o con delle fruste iniziate a montare gli albumi, che dovranno essere a temperatura ambiente. Quando lo zucchero avrà raggiunto la temperatura di 120 °C e gli albumi saranno diventati bianchi e spumosi, potrete versare a filo lo sciroppo di zucchero, sempre continuando a frullare. Continuate a montare gli albumi finché, toccando la ciotola, risulterà fredda. A questo punto date sfogo alla fantasia e con la spatola o la sac à poche sistemate la meringa sulla zuppa. Per darle l’effetto abbrustolito, usate la pistola a fiamma per caramellare.
Riponete di nuovo la zuppa nel frigo per 1 ora prima di servirla.
Tagliate una fetta copiosa per voi stessi, quale premio per quest’opera di non poco estro, e concedetevi tempo e silenzio per godere di una felicità compatta e lussuriosa che ha fatto il giro del mondo!
SILVIA CHIARANTINI è cuciniera curiosa, mangiatrice un po’ smodata, vivandiera affettuosa.
Nel 2016 scrive Pop Palestine. Viaggio nella cucina popolare palestinese, il racconto di un viaggio e di un popolo visto dall’interno delle sue cucine. Realizza anche un documentario dal titolo Pop Palestine. Salam Cuisine da Hebron a Jenin, proiettato in festival italiani e internazionali sul cibo e selezionato all’Al Jazeera International Documentary Festival di Doha (Qatar) e al Boston Palestine Film Festival. Tiene corsi di cucina mediorientale e pubblica le sue ricette sul blog www.popcuisine.it
Leggi anche Cucina è tracciare percorsi, Daniele De Michele Donpasta intervista Silvia Chiarantini.
Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 30
18 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org
Last modified: 3 Feb 2024