Daniele De Michele Donpasta intervista Silvia Chiarantini
Fotografie di Silvia Chiarantini
Silvia Chiarantini si presenta con il suo nuovo libro di cucina, Parkour, che fa seguito al progetto Pop Palestine (Edizioni Stampa Alternativa, 2016). Con la sua compagna di viaggio, la fotografa Alessandra Cinquemani, aveva utilizzato la cucina come escamotage per raccontare la Palestina. Un pretesto ben congegnato per farne una sorta di trattato geopolitico. Silvia, in questo suo nuovo lavoro, si fa traceur, sceglie una strada più intima per parlare di storia, geografia, politica, questioni di genere, memoria e meticciato. Lo fa con un libro fotografico, che è un ricettario ma soprattutto un’autobiografia. E ancora una volta riesce il gioco di usare il cibo per raccontare altro. O ancora meglio, utilizzare una ricetta come punto di partenza per una riflessione più larga sul mondo. Un percorso, parcours, parkour.
In questo libro unisci, attraverso le ricette e senza timore e pudore, il tuo vissuto più personale, a considerazioni storiche, culturali e politiche. Quali sono le ricette che più possono rappresentare questo viaggio?
Le ricette della mia famiglia sono quelle cui sono più legata. Sono ricette con un pesante portato sentimentale e i racconti che le accompagnano rappresentano storie spesso tristi, quelle che rompono l’ideale romantico di una cucina che è amore, profumo di cannella e torte di mele appena sfornate, pace tra i popoli, curandera di tutti i mali del mondo. Spesso la cucina è un luogo violento, spesso è l’arena delle peggiori storie di una famiglia, spesso è il luogo dei silenzi, o dove si parla, si racconta e si finisce a cucinar tristezza. Queste sono le ricette che appartengono alla mia memoria: La farinata di cavolo nero e la carota della discordia, Gli gnudi e la pazienza, I cardi e la cucina amara, Il meringaggio e l’educazione sentimentale, Quel giorno che abbiamo mangiato le pappardelle alla punta di petto. Poi ci sono le ricette che mi rappresentano come persona adulta e riguardano i viaggi e quella cucina meticcia, fatta di incontri e gran miscugli come per esempio Hummussina che è una cecina dal sapore mediorientale o Imam baylidi: l’Imam svenuto, riavuto e risvenuto, un piatto ottomano preparato con le mie amate melanzane a cui, sul finale, si aggiunge qualche profumo italiano, oppure l’hummus, o la salsa di melanzane affumicate, o la Gaza tarte tatin, una torta salata con scalogni da servire capovolta, come andrebbero capovolte le condizioni di vita di tanti popoli.
La cosa che incuriosisce di più è la metafora che dà il titolo al libro: “Parkour”, che nel suo essere sport atletico e spericolato è lontano anni luce dai piatti ipercalorici del tuo libro.
Il Parkour è una disciplina sportiva che consiste nel superare ostacoli naturali o architettonici: per attraversare una strada si salta da un tetto a quello del palazzo di fronte, con una capriola si oltrepassa un fossato, ci si arrampica su un muro per andare al di là. Così è anche la mia cucina, fatta di piatti che attraversano il Mediterraneo da una sponda all’altra, rotolano all’indietro nel secolo scorso per raccontare la storia di una ricetta, fanno acrobazie lessicali da una cecina all’hummussina, saltano dal muhallabie palestinese al biancomangiare. Oggi abbiamo bisogno di acrobazie parkour per oltrepassare barriere di confine, fisiche e non, che sono sempre più alte. La mia cucina parkour è sempre aperta e in movimento, pronta ad accogliere quell’ingrediente sconosciuto arrivato con una nuova amicizia, portato di ritorno da un viaggio o scoperto nelle pagine di un libro. Molti esempi di ricette parkour si ritrovano della nostra tradizione, ad esempio la Zuppa inglese: un dolce che nel titolo sembra venire dall’Inghilterra, tra i propri ingredienti ha un pane nato in Spagna da un pasticcere genovese, una crème pâtissière inventata oltralpe, un cacao che ha fatto un lungo viaggio dal sud America e un liquore, l’alkermes, che pare uscito da lontani caravanserragli delle storie di Le mille e una notte ma che venne creato, centinaia di anni fa, dai fraticelli in un convento nel cuore di Firenze”.
C’è sempre un’urgenza dietro un’idea narrativa, e qui mi pare che ci sia un nesso, un questionarsi tra memoria e contemporaneità, tradizione e meticciato. Come attraversi la questione, tra ricette tradizionali e spurie, che nell’idea dei tanti possono sembrare incompatibili?
Un giorno lessi una frase che mi parve proprio una grande castroneria e fu in quel momento che sentii il desiderio di dire qualcosa sulla mia identità culinaria. In un manifesto, esposto in occasione di un presidio della Lega di qualche anno fa, era scritto: “Sì alla polenta, no al cous cous”. Mi dette fastidio quell’idea peregrina di escludere, di cristallizzare e sigillare l’italianità, ignorando che, da che mondo è mondo, l’identità culturale di un Paese nasce dall’incontro e dallo scambio, proprio quello da cui è nata la polenta e che si vorrebbe vietare vietando il cous cous. Ho scritto questo libro perché sono stufa di sentirmi dire da altri chi sono, cosa mangio, come mangio, quali sono le mie radici. Ecco, la mia identità ha poco a che fare con lo stereotipo nazionalista di polenta, pizza o carbonara. Questi non sono piatti che fanno parte della mia identità culinaria. Non sono piatti che si cucinavano in casa mia e neanche piatti che preparo io oggi. La mia identità culinaria è nata in una famiglia fiorentina in cui si cucinavano tanti piatti toscani, ed è poi cresciuta con viaggi, incontri, amiche e amici con cui cucinare e mescolare ricette armene, iraniane, palestinesi, libanesi, tunisine, messicane, etc. È fatta di farinata di cavolo nero, gnudi, pappa al pomodoro e meringaggio a cui, negli anni, si sono aggiunti piatti del Medio Oriente che mi danno la stessa sensazione di casa, nel bene e nel male, delle ricette di famiglia. Per me questa è la ricchezza sia dell’identità personale sia di un Paese: memoria e cammino.
Quanto è importante la filologia in un lavoro editoriale sulla cucina? Quanto l’aspetto storico? Anche in Pop Palestine si univano le due cose, ma farlo sulla cucina popolare italiana è per certi versi più pericoloso, perché tocca un tasto che nella vulgata generale è intoccabile.
La logica di delegare al passato il potere di dirci chi siamo nel presente, che tanto piace a certa politica, neanche trova conferma in quello slogan farlocco: Bartolomeo Scappi nel suo libro di cucina Opera, pubblicato nel 1570, riporta una ricetta preparata con la semolella che chiama sucussu che altro non è che un piatto di cous cous con carne e verdure. E la polenta che conosciamo oggi (non quella che si faceva con farina di farro) ha ben poco di autoctono visto che il mais è arrivato in Italia dall’America. Veniva chiamato granturco, perché un tempo, quello che arrivava da terre lontane lo si considerava turco. Bisogna ricordarsi che, se eliminassimo dalla tavola tutti i cibi che in origine non ci appartenevano, ci rimarrebbe ben poco da mangiare! La cucina italiana è una cucina meticcia e lo sarà sempre, nonostante i muri e le paure. L’identità, come la cucina, è in costante trasformazione, chi siamo è solo nell’ultimo io. Ma non lo dico io, lo dice Bauman: l’identità è liquida perché non è in grado di mantenere sempre la stessa forma se non al prezzo di costringerla in un contenitore. Ecco, una società rinchiusa in un contenitore che destino può avere?
Pop Palestine era il libro fotografico su un viaggio e su una cucina specifica. Parkour è un libro che forse non avrebbe neanche bisogno di foto, tanto è ben raccontato. Perché hai deciso di farne un libro fotografico?
Nell’altro libro che avevo fatto, Pop Palestine, alcune foto erano state scattate di ritorno dal viaggio da una straordinaria fotografa professionista, Alessandra Cinquemani. Io non sono fotografa e ho anche poco feeling con i comandi della macchina fotografica. Ho acquistato una macchina e sistemato uno spazio in casa sotto la finestra per fare le foto. Mi sono concessa il lusso di fare, provare, smontare e rimontare fino a che non ho trovato immagini che aggiungessero qualcosa al racconto o ne fossero la giusta cornice. A far tutto da soli si dura una gran fatica, ma solo così si arriva a dar forma a ciò che si ha in mente.
Leggi anche Una zuppa inglese molto parkour da Silvia Chiarantini, Parkour. La mia cucina, sconfinata e in movimento, Porto Seguro, Firenze, 2023
SILVIA CHIARANTINI è cuciniera curiosa, mangiatrice un po’ smodata, vivandiera affettuosa.
Nel 2016 scrive Pop Palestine. Viaggio nella cucina popolare palestinese, il racconto di un viaggio e di un popolo visto dall’interno delle sue cucine. Realizza anche un documentario dal titolo Pop Palestine. Salam Cuisine da Hebron a Jenin, proiettato in festival italiani e internazionali sul cibo e selezionato all’Al Jazeera International Documentary Festival di Doha (Qatar) e al Boston Palestine Film Festival. Tiene corsi di cucina mediorientale e pubblica le sue ricette sul blog www.popcuisine.it
DANIELE DE MICHELE – DONPASTA è dj, economista, attivista stregato dalle gastronomie. Ha presentato I Villani (2018) al Festival del Cinema di Venezia, film documentario dedicato alla cucina familiare italiana e alle sue declinazioni agricole e artigianali. Naviganti (2020) sarà ulteriore conseguenza di quella riflessione, aperta a un mondo chiuso dalla pandemia e fragilità nuove. È autore di Food Sound System (Feltrinelli, 2006), Wine Sound System (Feltrinelli, 2009), La Parmigiana e la Rivoluzione (Stampa alternativa, 2013), Artusi Remix (Mondadori, 2014) e Kitchen Social Club (Altraeconomia, 2016). Frequenta consolle e cucine, onora il patrimonio culturale custodito tra i fornelli accessi delle nonne. Dal 2004 gira i mondi con il suo spettacolo di Food Sound System.
Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 30
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org
Last modified: 3 Feb 2024