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Giglio

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Di Susanna Camerlengo

Partiamo dal fondo.
Un boccione che sembra contenere una nuvola di tramonto, lo stesso colore che l’ansonaca matura ruba al sole prima del suo tuffo nel Tirreno. 

Questo racconto inizia da qui: dal fondo residuo degli ultimi travasi, assaporato nella cantina di Altura Vigneto a Giglio Castello, in un pomeriggio di inizio Maggio. 

Francesco Carfagna mi accoglie sorridente con gli occhi di un bimbo allegro che ne ha combinata una delle sue. Avevo appuntamento con Irene, sua figlia e titolare dell’Altura, l’azienda di famiglia fondata quando al Giglio erano solo i contadini a tirar fuori i nettari dalle greppe, per uso famigliare. 

É una bella sorpresa trovare Francesco al suo posto. Si è attardato nei lavori per gli ultimi travasi, appare felice di conoscermi e mi riempie di domande. Alla fine delle chiacchiere mi dà un buffetto sulla fronte, a mo’ di benedizione: “Hai la testa piena di cose buone”.

Mi trovo qui da tre giorni, dopo aver salutato l’Abruzzo alla ricerca di nuove ispirazioni e con il desiderio di conoscere da vicino non solo la millenaria tradizione vinicola isolana, ma anche la comunità gigliese, figlia di quei resistenti che nel ‘76 cercarono di impedire l’approdo di Freda e Ventura, in soggiorno obbligato durante il processo per la strage di Piazza Fontana.

È bastato inerpicarmi su una delle tante mulattiere che attraversano questo blocco di granito rosa per innamorarmi perdutamente del luogo e dei suoi abitanti, nonostante le contraddizioni di una meta turistica che obbliga le famiglie a emigrare per dare un’istruzione superiore ai propri figli. Anch’io sono figlia di un’isola, un’isola di montagna chiamata Appennino Centrale, e qui, circondata dal mare e dalla macchia mediterranea che si riprende gli spazi lasciati vuoti dal passato contadino, mi sento a casa.

Irene arriva di lì a poco, carica di ceste e sacche per la prima degustazione della stagione. Con lei c’è Giulio Filippini, pubblicitario romano e ristoratore sul Giglio, animatore della Pro Loco isolana. É stato lui a organizzare il campo di volontariato di Lunaria portando persone di ogni nazionalità per la pulizia delle coste gigliesi.
Oltre alle reti di nylon che si accumulano sui fondali distruggendo ecosistemi e spargendo microplastiche, il problema è dato dalle cassette del pesce abbandonate in mare. Una volta a riva, il polistirolo continua a degradarsi in particelle sempre più piccole oramai indistinguibili dai residui organici della macchia costiera. Sotto il tappeto di Fico degli Ottentotti spiccano come coriandoli le palline bianche destinate ad essere ingerite da pesci, rettili e uccelli, e infine da noi. 

Fortunatamente mani e menti sanno creare anche tanta bellezza, ed è la visione della vigna di Biagio a Cala del Corvo a spazzar via ogni pensiero malinconico.

Per arrivarci impiego un’ora e mezza di cammino, attraversando macchia mediterranea e lecceta umida, apprezzando la naturalità di queste mulattiere che un tempo pullulavano di uomini e bestie nella fatica di un’agricoltura stoica, mentre adesso ospitano al massimo escursionisti e turisti in infradito. La bellezza che mi circonda è talmente vivida e potente da togliere il fiato. Un biacco lucente striscia via davanti ai miei piedi, e nel seguirlo con lo sguardo mi accorgo che i cisti fioriti hanno ora lasciato il passo a una miriade di foglie verde brillante che nascondono numerosi grappoli ben formati. Sono arrivata alle vigne, e a colpirmi immediatamente sono l’ordine e la cura con cui Biagio e Marisa, nei loro settant’anni, continuano a tenerle. File e file di terrazzamenti corrono sotto i miei piedi. Muretti a secco costruiti da numerose generazioni prima di loro, tengono insieme la terra grigia che brilla di minerale. Addossate alle pietre, le ansonache si ergono magnifiche sorrette dalle canne intrecciate dietro le loro spalle. La palatura gigliese è il sistema più antico di sostegno alle viti: sulle strutture basse i nuovi tralci vengono piegati e accompagnati in orizzontale e poi verso il basso, in modo che ogni pianta arrivi a supportarsi a vicenda, compagne sottobraccio a sfidare i venti di ponente. Biagio lo trovo qualche metro più sotto, impegnato nella legatura. Poco distante da lui, sua moglie Marisa lo anticipa rimuovendo le femminelle, un lavoro di squadra che eseguono da cinquant’anni. 

Quando si accorge della mia presenza, dopo un attimo di sorpresa, mi parla subito della pianta che stringe tra le labbra, le cui fibre forti ed elastiche si prestano magnificamente a legare le viti. Il serracchio (Ampelodesmos mauritanicus) è tipico di terreni aridi e sabbiosi, i suoi steli sottili si raccolgono verdi, si lasciano seccare ben bene al sole, e poi, prima di usarli, si fanno rinvenire una notte in acqua. Questo processo rende le fibre robuste ed elastiche, adatte ad essere torte e tirate. Biagio ne tiene un fascio in bocca e uno appeso alla cinta. Man mano che avanza lungo la fila tira fuori uno stelo, lo divide in fettucce sottili e in pochi secondi lo avvolge attorno al giovane tralcio poggiato sulla canna. Due giri stretti ma non troppo, poi pollice e indice di una mano a torcere i due capi tra loro e due dita dell’altra a tenere stretto il legame. Infine, i due lembi contorti si avvolgeranno nuovamente su se stessi e non servirà fare nodi. In pochissimi secondi la vite è assicurata e non ci sono plastiche né altri scarti in giro. «Quando mi cade un pezzo, alla fine diventa concime» dice Biagio, orgoglioso della sua pratica a impatto zero. 

Biagio conosce approfonditamente la storia dell’ansonaca, perché è nato e cresciuto tra i suoi tralci e perchè negli anni ha raccolto molte informazioni sull’argomento, arrivando anche a seguire i lavori di Attilio Scienza, quando negli anni Ottanta con l’Università di Milano arrivò sull’isola per una ricerca sulla “frode” del vino di Chio.
Quando ci siamo incontrati la prima volta nel bar del paese, mi ha parlato delle anfore di terracotta sul fondo del mare, create soprattutto da mani Etrusche in imitazione di quelle Greche (siamo pur sempre i figli dei nostri padri) e del rapporto profondo tra la roccia e la vite. L’ansonica (o ansonaca, alla gigliese) è un’uva dalla buccia spessa e resistente come la pelle degli isolani. Talmente profumata e croccante in bocca da essere venduta storicamente più come uva da tavola che da vino. Fino a qualche decennio fa partivano ancora le barche cariche di grappoli in direzione del porto di Civitavecchia. 

Un’uva indissolubilmente legata al mare fin da quel primo presunto viaggio di qualche millennio fa, quando partì dalla Grecia per poi fare tappa in Sicilia (dove è conosciuta come inzolia) e giungere nell’Arcipelago Toscano dove si è affermata maggiormente sul Giglio, forse proprio grazie al granito di cui è costituito il sottosuolo e che indubbiamente contribuisce a donarle quell’espressione così diversa rispetto alla sua versione siciliana. 

Fino a prima della Montecatini, la miniera di pirite aperta negli anni Trenta, la superficie dell’isola era quasi interamente ricoperta da terrazzamenti coltivati: un giardino rigoglioso incastonato tra acque color zaffiro, talmente bello e abbondante da essere continuativamente preda di razzie piratesche. La maggior parte dei contadini scelse di lasciare i campi per lavorare nella miniera, ma dopo la sua chiusura nessuno è tornato a coltivare, preferendo la strada dell’emigrazione. È così che il Giglio è diventato quel santuario naturalistico che è adesso. Oggi gli ettari vitati sono poco più di venti, e per lo più frammentati in particelle piccolissime che aggiungono disagio al già difficile lavoro dei, tuttavia, numerosi viticoltori del Giglio. Negli ultimi anni l’appetibilità delle viti gigliesi è andata aumentando, portando all’apertura di nuove aziende vinicole in loco e attirando sull’isola investimenti di cantine provenienti dal Continente con l’intento di diversificare la loro offerta con una suggestiva linea di Ansonaco gigliese. Qualcuno mi fa notare che se tutto l’Ansonaco venduto come gigliese provenisse realmente dall’Isola ce ne vorrebbero tre di isole per soddisfare la domanda. Sorrido, pensando alla storia degli Etruschi abitanti dell’isola che facevano fronte alle aperture di nuovi mercati spacciando il loro vino per greco, come raccontò la ricerca di Scienza, e poi a quanto sia difficile predire l’impatto reale che movimenti socio-economici così rapidi possano avere su una realtà così piccola. Questo meraviglioso angolo di Toscana che da un lato lascia andare i suoi abitanti originari e dall’altro accoglie nuovi investitori facoltosi, sta già diventando un paese fantasma nei mesi freddi e una località di villeggiatura estiva per i pochi che possono permetterselo. 

Fortunatamente geografia e conformazione geologica dettano i limiti e dà conforto sapere che, per quanto estesi potranno essere i nuovi impianti, la meccanizzazione selvaggia resta di fatto impossibile, a differenza di quel che potrebbe avvenire in altre realtà “eroiche” (vedi il caso Chiomonte raccontato da Paolo Bellati su L’Almanacco n. 27). 

Tra i vignaioli di sangue gigliese incontro Giovanni e Simone della Fontuccia, oggi molto conosciuti per il loro Senti oh! esportato in tutto il mondo. 

Mi aspettano nella vigna che ha dato il nome alla Cantina, affacciata sulla baia di Campese dominata dallo sperone del Faraglione. L’avventura dei fratelli Rossi è iniziata nel Duemila, quando Giovanni, il maggiore, prese ad affiancare in vigna lo zio Giorgio. Nel giro di pochi anni il gioco si è fatto serio e nel 2006 si avvia il vero e proprio progetto imprenditoriale che li porta alle attuali dodicimila bottiglie l’anno (diventeranno diciottomila quando tutti i nuovi impianti entreranno in produzione). Pur nelle evidenti similitudini di un contesto agricolo in cui è davvero difficile innovare, date le condizioni geomorfologiche del terreno, Giovanni e Simone mostrano subito un approccio differente rispetto a Biagio. Parliamo di due mondi diversi: Biagio non ha mai prodotto vino per vivere, ma per passione e tradizione. Ancora più oggi che può farlo godendo della meritata pensione. I fratelli Rossi hanno invece due famiglie da sostenere con la propria attività e, pur essendo le loro vigne ugualmente bellissime, la loro gestione più che sulla poesia si basa su praticità ed efficienza. Niente serracchio quindi, va benissimo la legatrice. Il terreno mostra ancora i coriandoli blu della stagione passata.

Giovanni e Simone, con altri produttori, hanno scelto di non effettuare vendita diretta ma di sostenere i commercianti locali concedendo la vendita in esclusiva delle loro bottiglie. 

Il vino al Giglio costa caro, e non c’è da stupirsi se si valuta la difficoltà del contesto. Al di là del romanticismo di queste vigne splendidamente incastonate tra il rosa del granito e il blu del mare, la fatica è immensa. Tutto dev’essere eseguito a mano, creando delle catene umane per il trasporto delle cassette durante la vendemmia. Anche i terreni vengono zappati manualmente. Con l’eccezione di qualche motozappa. E non posso neanche azzardarmi a parlare di inerbimento, perchè tutti mi fanno notare come in quei pochi centimetri di terra la competizione per la risorsa acqua è feroce e spietata e bisogna lasciare campo libero ed esclusivo alle viti. 

In realtà Francesco e Irene di Altura, le cui vigne avrò modo di visitare il giorno seguente, hanno un approccio molto più selvatico alla vigna, e spesso la lasciano in inerbimento spontaneo, arrivando persino a non potare alcune particelle per dieci anni, in modo da osservare lo sviluppo della pianta e il suo modo di lasciare morire le parti di cui non ha più bisogno. Ognuno ha trovato la sua ricetta per estrarre il meglio da quest’uva così forte e indomita.

Si parla tanto di viticoltura eroica, tuttavia a me sembra riduttivo. Chi fa il vino sul Giglio non è un eroe. È una persona che ha una fede incrollabile nella sua terra: io mi prendo cura di te, ti dono la mia forza, il mio sudore e il mio amore, e tu mi onori permettendomi di concentrare in una bottiglia i tuoi aromi e profumi esaltati dal sole. Il vignaiolo del Giglio non si lancia in battaglia per andare a morire, ma onora una missione affidata a lui da generazioni e lo fa con l’amore solido e tenace di un genitore che sa prendersi cura a prescindere da tutte le difficoltà che incontra. Ecco, preferirei forse il termine viticoltura incondizionata, come l’amore.

Ed è proprio l’amore ad aver guidato Milena Danei, l’ultima viticoltrice che riesco ad intervistare prima della partenza, nel suo ritorno sull’isola. Enologa di fama, nel 2018, con il marito Alex e i loro bimbi, torna nella sua terra d’origine, dove inizia subito a recuperare i vigneti di famiglia. Nasce così Parasole, dal soprannome affibbiato a nonno Scipione a causa delle sue spalle larghe. Di Milena mi colpisce la capacità organizzativa. Prima di arrivare in vigna ha i figli da preparare per la scuola, un cane e una casa da gestire, aiutata dal marito. Per tenere testa a tutto, il suo approccio è stato da subito votato alla qualità: poche bottiglie ma eccellenti. Dai suoi 7000 mq di vigna, Milena ricava oggi 2500 bottiglie (tra qualche anno diventeranno 5000 con il recupero di altri vigneti). Non vuole crescere di più. Solo magari concentrarsi sul recupero delle vigne nel lato nord-est dell’Isola, zona un tempo poco apprezzata per la viticoltura, ma oggi appetibile, nell’era del cambiamento climatico.
Da lei assaggio il mio primo sorso di passito dell’isola: un’esplosione di sapori e profumi di erbe e frutta selvatica, dal bouquet talmente complesso da ricordare una tavola imbandita di frutta e fiori nel cuore dell’estate. Il vino scelto si fa con i grappoli più belli tra le varietà presenti nel vigneto, raccolti prima dell’inizio ufficiale della vendemmia e lasciati appassire sul granito per una ventina di giorni prima della vinificazione vera e propria. Il risultato è impossibile da descrivere, mi ricorda il colore rosso che i raggi di sole sul viso creano dietro le palpebre chiuse. Penso a quel colore che scende in gola e va a scaldare il cuore con una nota di giuggiola matura che sa di antico. 

Sono trascorse due settimane. I giorni di pioggia sono stati tanti, e le suggestioni innumerevoli. 

Un’isola è un luogo estremamente interessante per studiare dinamiche sociali, economiche e ambientali. Nuove economie e una società nuova vanno occupando gli spazi lasciati vuoti dallo spopolamento, e in questo equilibrio ancora lontano da raggiungere, alcuni elementi restano fermi e immutabili, indifferenti a ogni cambiamento. Come la signora del Castello che mi raccontano abbia trascorso una vita intera nella parte alta dell’Isola senza mai essere scesa al Porto. Come i bombi, veri custodi del Giglio, numerosi e trionfanti nei loro voli su cisti ed echium senza curarsi degli yacht ancorati nelle baie sottostanti. Come le ansonache del Serrone, che da secoli restano ancorate al granito ammirando il tramonto dietro l’isola di Montecristo che galleggia placida come una ninfea in uno stagno.

È Francesco a donarmi l’ultima suggestione di questo primo viaggio, mentre torniamo in auto dalle vigne di Altura nella punta meridionale dell’isola, al calar del sole, con i finestrini aperti a inondarci di profumi mediterranei. L’isola potrà pure essere abbandonata dai suoi abitanti e conquistata dagli affaristi del Continente. Ma tutto sommato, ineluttabilmente, alla fine di ogni singolo giorno, prevalgono le stelle.


Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 29
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org

Last modified: 2 Nov 2023

2 Responses to " Giglio "

  1. Chiara Tosini ha detto:

    Wow che emozione!Così attuale ed eterno il valore umano raccontato parlando di una terra paradisiaca.

  2. Domenica ha detto:

    Sempre pieni di poesia i tuoi racconti, che ci riempiono gli occhi e il cuore! Grazie Susetta!

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