L’incanto di un viaggio, vite e viti, altitudini altre ed estreme
testo e fotografie di Gabriele Moscatelli
Deciso a intraprendere un viaggio alla ricerca di luoghi viticoli remoti ed estremi scelgo l’Argentina. Il luogo più rinomato per la produzione di vino, soprattutto malbec e soprattutto di stampo industriale, è Mendoza; poi c’è Cafayate, conosciuto per vini più particolari perché più in altitudine, e l’Alta Valle Calchaqui, dove ci sono vigne tra le più alte al mondo, fino a 3111m s.l.m., assieme alla provincia di Jujuy dove arrivano addirittura a 3329m s.l.m.; qui la viticoltura è più recente e meno conosciuta, la Quebrada de Humahuaca è infatti famosa principalmente per le sue pittoresche montagne patrimonio UNESCO.
Le uve più coltivate sono malbec, merlot e cabernet sauvignon, il tannat ha trovato a Cafayate un eccellente terroir, ma è il torrontés a essere la più rappresentativa perché unica: è un incrocio tra il moscato d’Alessandria, che noi conosciamo come zibibbo, e la particolarissima uva criolla portata dai missionari spagnoli nel XVI secolo in Centro e Sud America, anche lei molto coltivata ma principalmente come uva da tavola.
Cafayate e Valle Calchaquí
La provincia di Salta abbraccia quella di Jujuy nella parte nord occidentale dell’Argentina: a nord ha delle selve montagnose e confina con la Bolivia; in mezzo c’è una valle subtropicale fertile con clima mite dove, attorno a Cafayate a circa 1500m s.l.m., si sviluppa la principale parte agricola e vitivinicola; verso il confine con il Cile, a ovest, c’è la cordigliera delle Ande con la presenza di qualche cantina situata sopra i 2500m s.l.m. Tutta la provincia è ormai rinomata per il vino, sia commercialmente che turisticamente.
Utama bodega artisana
Utama è una piccola realtà appena fuori Cafayate, città situata a circa 1700m s.l.m., in mano a Sacha Haro Galli dal 2000 e fondata dal padre Emilio nel 1988. Sacha ha avuto solo una parentesi in Spagna di tre anni, dopodiché è tornato e ha continuato a fare vino e arte ceramica, un’altra abilità paterna ora sviluppata soprattutto dal fratello Huayra.
I primi anni comprava tutta l’uva ma dopo aver incontrato Giselle, sua compagna e diplomata in enologia a Cafayate, ha incominciato a impiantare una piccola vigna di mezzo ettaro. Il resto dell’uva la acquista da piccoli produttori locali con conduzione familiare, agroecologica e non certificata come lui.
In vigna fa inerbimento seminando la vicia, una leguminosa che si autoriproduce, ogni tanto sfalcia e lascia l’erba tagliata come pacciamatura e fertilizzante naturale che, assieme alle deiezioni degli animali in inverno, permette di aumentare la fertilità del terreno nonostante non lo lavori con alcun macchinario. Per proteggere le piante usa principalmente equiseto, solo quando necessario dello zolfo e al massimo dei preparati biodinamici. Anche la bassa densità del vigneto, che determina una buona aereazione, ne permette la salubrità. L’acqua, fondamentale in primavera a causa della scarsità di piogge nella stagione, viene attinta dal Rio Chuscha lì vicino, sacro ai locali.
La vinificazione è tipica: pigiatura in vasca di cemento (anticamente era in pelle di vacca), fermentazioni separate in acciaio inox a temperatura controllata, in qualche caso contenitori più piccoli in plastica alimentare e in altri casi barrique usate, poi l’assemblaggio. Nessun aggiunta di solfiti, che usa solo per lavare i contenitori, come suggerito da Giselle.
I vini sono emozionanti e validi, come le ceramiche di Utama. Fruttati ma con una buona acidità, perfino balsamici, il Cabernet Malbec addirittura con un forte accenno di molle, il pepe rosa che qua è endemico e selvatico, la Criolla Chica aromatica e alcolica, quasi un vermut naturale.
Sacha è connesso alla cultura europea ma anche a quella indigena, unisce lui stesso tradizioni antiche e moderne: mentre parla di vino sta coqueando, ovvero mastica le foglie di coca, un uso antico delle popolazioni andine per sentire meno fatica e altitudine.
L’associazione tra bevande fermentate e sostanze stupefacenti è remota e recente allo stesso tempo, dato che l’incontro/scontro della cultura indigena con quella europea è solo di cinquecento anni fa. Sono stati trovati, infatti, alcune giare di terracotta contenenti resti di una bevanda fermentata, utilizzata per riti sciamanici, a base di mais, carrubo sudamericano e cebil. Il mais ha il necessario contenuto di zuccheri per essere fermentato; la farina del carrubo sudamericano, chiamata anche gomma di tara, è usata ancora oggi come addensante per dolci e gelati; il cebil o vilca, una specie di enorme mimosa, ha proprietà allucinogene grazie al contenuto di dmt.
Quando si vede qualcuno tirare fuori un pacchetto non è per rollarsi una sigaretta, ma per prendere delle foglie da masticare, talvolta anche aromatizzate ai più disparati sapori tipo maracuja o cicca, e sempre miscelate a una sostanza alcalina come bicarbonato di sodio o cenere per permettere l’assorbimento del principio attivo.
Qui poi carnevale e vendemmia si festeggiano insieme, grazie alla coincidenza stagionale dei due eventi: a febbraio-marzo è, infatti, fine estate.
Bodega, artesano o casero?
Utama non è un’azienda tradizionale ma artigianale, e fino a due anni fa era casalinga.
La definizione di vino artesanal, assieme a quella di vino casero, fu creata nel 2003 per differenziare e regolarizzare i diversi tipi di produzione vinicola. All’epoca le leggi in Argentina decretavano diritti e doveri solo per le bodegas, cantine tradizionali di stampo commerciale, mentre i piccoli produttori dovevano fare vino clandestinamente o schiacciati dalla burocrazia e dalle tasse: stavano quindi scomparendo. Fu quindi differenziata la tipologia di produzione: chi fa vino casero può produrre fino a quattromila bottiglie ed è limitato a un mercato locale o nazionale, chi fa vino artesanal fino a dodicimila bottiglie e può anche esportare; entrambi non pagano nessuna tassa sulla produzione ma solo una parte sulla vendita e devono sostenere soltanto il 25% delle spese per le analisi chimiche obbligatorie, una parte decisamente piccola rispetto alle grandi aziende, e soprattutto sostenibile.
Nel 2011 il governo aumentò le tasse sull’esportazione e il 5% fu dedicato a un sussidio indiretto per i piccoli produttori che, associandosi tra loro, poterono acquistare macchine agricole da condividere, come delle pigiadiraspatrici su ruote, trasportabili.
Sacha è molto orgoglioso di questo processo e ne ha fatto parte sin dall’inizio. In zona è stato l’undicesimo a ricevere l’appellativo di casero e il fatto che ora siano più di cento è un dato che ne certifica il buon funzionamento. All’epoca è stato il rappresentante di quaranta produttori caseros: scrissero insieme un progetto che fu approvato e portato avanti nonostante il governo successivo tentò di revocare norma e finanziamenti. Funzionò e dimostrarono così che era positivo per tutta l’Argentina, grazie al miglioramento sanitario dei vini in circolazione e alle micro economie collaterali che si erano create, come la vendita di cartoni o tappi, ricevendo il sostegno persino dalle grandi bodegas.
Questa norma, il fatto che in Argentina l’istruzione è gratuita per tutti e l’apertura a Cafayate nel 2010 della scuola tecnica di enologia, ha permesso alle persone di rimanere nelle campagne e iniziare una propria attività con conoscenze adeguate e poco investimento grazie a tasse basse e una burocrazia agile. Ciò sta effettivamente trasformando la società e per Sacha è rivoluzionario, un cambiamento economico ma anche e soprattutto culturale.
Inicio vinos bodega casera
Jorge Inicio è indigeno e suo padre da sempre lavora per una grande azienda vinicola della zona; dopo aver frequentato la scuola tecnica di enologia a Cafayate ha iniziato nel 2013 a produrre il suo vino casero grazie ad un’annata di grande produzione in cui suo zio gli ha offerto dell’uva che non riusciva a vendere alla cooperativa. Da quel momento ha cominciato a proporre il vino nella sua piccola rete sociale, a hotel e a ristoranti vicini, e a partecipare a qualche mercato contadino.
Pigiatura, pressatura e diraspatura sono ospitate da Utama mentre la vinificazione, per ora in bidoni di plastica alimentare, avviene nel piccolo locale sotto casa, ai margini a sud del paese.
Ogni suo vino è semplice, zergo, con alcuni richiami alla produzione convenzionale, come l’uso di chips di legno al posto della barrique, che non può permettersi, e la tendenza a correggere l’acidità: sicuramente pratiche apprese alla scuola tecnica.
Jorge non ha vigna e, oltre che da suo zio, compra le uve da piccoli produttori locali tra cui Carlito Gutierrez, che andiamo a trovare: un vero contadino innamorato della terra e del proprio territorio, che si prende cura di una finca agroecologica a conduzione famigliare, con vigne anche di trenta o cinquant’anni, e alberi da frutta come pesche, mele, pere, e qualche pecora. La sua marmellata di pesche, così come il luogo, mi fa tornare bambino nella casa dei nonni.
Alta Valle Calchaquí
A ovest di Salta e Cafayate c’è l’Alta Valle Calchaquí, una pre-cordigliera granitica innalzata dalle Ande stesse, e quindi più antica, che arriva fino a 5000m s.l.m. La sabbia è prevalente, non c’è argilla e anzi ci sono boro e sale, nocivi per l’agricoltura, e soprattutto il litio, da cui le controverse miniere.
Il clima è molto duro, anche i pascoli ovicaprini sono rari, si coltiva solo un po’ di cipolla, peperone, anice, cumino, erbe officinali. Per la vite il rischio di gelate è forte e l’escursione termica estrema, fino a 20°C, la porta ad avere un ciclo di maturazione molto lungo, una produzione più risicata, acini più piccoli e una buccia più spessa, che si traduce in vini concentrati, colorati, alcolici e strutturati. Un terroir decisamente invadente.
Arrivare a Molinos da Cafayate poi non è per niente facile: a parte il primo pezzo sulla Ruta 40, dove tra l’altro visitiamo un vigneto di criolla chica di più di cento anni, la strada non è percorsa da nessun mezzo pubblico di trasporto ed è in pratica un sentiero tutto pietre, buche e dislivelli. Dopo due ore molto faticose incontriamo anche un fiume, che l’autista deve letteralmente saltare lasciandomi esterrefatto.
Il percorso poi s’inerpica su una strada stretta di terra rossa, a picco sulla montagna, e passata la vetta si apre sotto di noi uno spettacolo emozionante: una finca bianca racchiusa da montagne rosse, vigneti verde brillante e un cielo celeste mozzafiato.
Tacuil
La nobile storia di Tacuil è collegata a Colomé e a doña Ascención Isasmendi de Dávalos. Nel 1837 ereditò da suo padre, ex governatore di Salta, l’azienda a Molinos e nel 1854 impiantò il primo vigneto di malbec e cabernet sauvignon d’Argentina. Nel 1982 il suo bis nipote, Raúl Dávalos Goytia, recuperò i vigneti centenari a 2567m s.l.m. e con Colomé consacrò i vini di Salta nel mondo. Nel 2001 vendette a un gruppo svizzero e si trasferì a Tacuil, dove impiantò nuove vigne con i cloni delle piante portate originarie. Raúl era famoso perché era contro la barrique, il vino doveva farlo la natura, doveva essere frutta e sole.
Oggi è il figlio Raúl Dávalos Rubio a gestire l’azienda e rappresenta ormai la sesta generazione di viticoltori. Nonostante la storia famigliare importante mi racconta fiero del team aziendale e del gruppo di produttori della zona con cui s’incontra una volta al mese per aggiornarsi su progetti e problemi, condividere informazioni e fare viaggi.
Scopriamo subito di avere delle relazioni in comune, qualche anno prima era stato da Cristiano Garella, presente a La Terra Trema nei primi anni e fratello di Daniele, Roncola d’Oro e attuale presenza imprescindibile della fiera feroce.
La conduzione agricola a quest’altitudine è quasi facile, a parte la formica non ci sono piaghe. Hanno una conduzione biologica, ma non certificata, e normalmente gli basta una sola applicazione di zolfo e rame. Sono presenti cinque micro terroir differenti per suolo e altitudine, da 2400 a 2700m s.l.m., divisi su 12ha di vigna totali.
La vinificazione è classica, ma tendono a non estrarre molto data la concentrazione che già hanno in partenza, facendo pochi rimontaggi per poter prolungare la macerazione nel tempo. I vini sono emozionanti, densi e rustici ma eleganti e freschi, attributi che difficilmente si accompagnano nei vini.
Il Torrontes 2020 è orizzontale e aromatico, fuori dalle mode attuali di Cafayate che tendono a costruirlo verticale, con acidità altissima e poca aromaticità. Il Sauvignon Blanc 2022 è fresco e verde e ricorda pisello, asparago, lattuga. Il Malbec El Pucareño 2020, nonostante un frutto molto denso, rimane vivace grazie alle note balsamiche di pigna. Il Viñas de Dávalos 2020 è un blend in vigna di malbec, cabernet sauvignon, petit verdot, criolla e bonarda (di nostro ha solo il nome perché corrisponde all’uva francese corbeau), diversità che dona complessità con note di pepe, menta, frutta rossa, una morbidezza in bocca molto fine e un tannino maturo. Un vino raro. Rustico ed elegante allo stesso tempo. Proprio come Raúl.
Jujuy
All’estremo nord ovest dell’Argentina, al confine con Bolivia e Cile, la provincia di Jujuy è la quartultima del paese per estensione ed è grande come Lombardia, Piemonte e Val d’Aosta insieme ma con una popolazione minore della sola città di Torino, di cui la metà concentrate nella capitale San Salvador. In quest’area riesce a esserci una notevole diversità climatica perché si trova sul tropico del Capricorno e passa dai 400 ai 4000m s.l.m.
Partendo da est e dai 400 ai 700m s.l.m. ci sono le Yungas, o Valle Subtropical, foreste pluviali tropicali dove si coltivano mango, papaya, banane, agrumi e avocado in un clima caldo e umido; dai 700 ai 1600m s.l.m., nel Valle Templado, la piovosità rimane alta (circa 1100mm/anno) ma il clima è temperato e si coltiva tabacco e frutta, soprattutto pesche e uva, anche da vino; la Quebrada de Humahuaca, una valle stretta dalle montagne, parte dai 2000m s.l.m., ha un clima decisamente più secco (piovono in media 200mm all’anno), e ospita principalmente orticoltura, allevamenti e incredibili vigne sulle Ande fino ai 3300m di altitudine; chiude a ovest, fino ai 4000m s.l.m., la Puna de Atacama, una zona andino desertica, molto arida e senza vegetazione.
Antropo
Quando arrivo a San Salvador de Jujuy Luciano, un ragazzo giovane sotto i trent’anni con gli occhi vispi e un ampio sorriso, mi accoglie in aeroporto con una fatiscente Volkswagen Saveiro blu del 1996. È quasi notte ma mi dice subito: «Prima di andare a casa dobbiamo passare alla bodega, ci sono i vini in fermentazione. Està bien?». Che accoglienza, non potevo desiderare di meglio.
Ci troviamo così da Antropo Wines, a mezzanotte ormai inoltrata, a fare rimontaggi e follature: con una pompa preleviamo il mosto dal fondo della vasca per versarlo direttamente sul cappello, formato dall’affioramento in superficie delle vinacce, e lo rompiamo con un bastone. Ciò permette l’ossigenazione del mosto favorendo la fermentazione, l’estrazione delle componenti aromatiche e coloranti ed evitare che le vinacce si secchino iniziando processi acetici indesiderati.
Le fermentazioni sono sempre spontanee su tutte le masse, raffreddate con acqua fredda e uno scambiatore termico. Oltre a qualche vasca d’acciaio hanno anche dei bidoni blu in plastica alimentare che usano per i volumi modesti di qualche piccolo produttore che ospitano in cantina.
Il progetto Antropo Wines, infatti, è nato anche per permettere ad altri produttori, perfino piccoli o piccolissimi, di prodursi il proprio vino, e non solo per fare il proprio. Le loro barrique, per esempio, non le usano per i propri vini, ma solo per quelli di Viñedos Yacoraite.
A oggi lavorano uve rosse come malbec, cabernet franc, merlot e tannat, e come bianche sauvignon blanc e torrontés.
In cantina conosco anche Sebastian Escalante, amico e socio di Luciano, che si occupa principalmente della parte comunicativa e commerciale, ed Ezequiel Bellone Cecchin, agronomo e anche lui socio in Antropo, con cui s’instaura subito un bel confronto tecnico e che mi promette sia di visitare insieme i vigneti d’altura sia di vendemmiare: qui la stagione, infatti, è opposta alla nostra trovandoci nell’emisfero australe. È lui a spiegarmi che nella Quebrada è necessaria l’irrigazione dei vigneti perché in primavera, quando le piogge sono fondamentali, la pioggia è molto scarsa.
Ezequiel segue diverse aziende nella zona ed è molto attento a incrementare la fertilità dei terreni, che in partenza sono rocciosi e poveri, utilizzando pacciamatura e inerbimento, lasciando le specie endemiche e i grandi cactus presenti naturalmente nell’area, anche per salvaguardare il paesaggio. Il contesto è fantascientifico: piccoli e grandi vigneti sovrastati da montagne rosse, enormi cactus verdi tra le file e, ancora una volta, un cielo celeste mozzafiato.
Il mattino seguente vendemmiamo nel Valle Templado a El Algarrobal, finca del señor Martin Jimenez. L’uva è tutta sanissima e mi colpisce il paragone di Carlos Mendoza, suo aiutante e indigeno: «Parese un choclo!». Guardando un grappolo di merlot bello compatto lo paragona a una pannocchia di mais. Il legame con questo frutto della terra è ancestrale e sostanziale per la loro cultura. Nel pomeriggio, a vendemmia conclusa, portiamo poi le uve in cantina da Antropo e iniziamo la vinificazione con Luciano. Il tenore zuccherino non è molto alto, sarà sui 12°, ma l’acidità si stava abbassando ed era necessario raccogliere l’uva.
Il giorno dopo, sempre con Ezequiel, facciamo una prima tappa a Bárcena (1883m s.l.m.) nella parte iniziale della Quebrada, dove le montagne attorno sono verdi, ricoperte a raso di un’erba corta corta. L’appuntamento è da The Canuto, un campeggio con cupole geodetiche ben attrezzate, dove praticano orticoltura sinergica e hanno in programma una vigna da impiantare, motivo della visita di Ezequiel.
Vigneti d’altura estrema
Passiamo poi da Huacalera (2650m s.l.m.) a vedere le giovani vigne ad alberello di malbec e cabernet franc, franchi di piede, e di merlot, innestato, del giovanissimo Ezequiel Peñalosa, solo ventidue anni, di Viña La Cabrera. Di famiglia piccolo coltivatore di ortaggi, ha deciso da un paio d’anni di impiantare qualche vite, a oggi ancora non in produzione.
Dall’altra parte del Rio Grande ci aspetta per pranzo, alla sua Finca BenaVides, Enrique “Chupete” Benavides, ex cantante e ristoratore di Buenos Aires, dove qui ha costruito il suo buen retiro: una piccola vigna di merlot, malbec, cabernet franc e marsanne per mille bottiglie in totale, tre cupole geodetiche in costruzione per l’ospitalità e su richiesta cucina casalinga per gli ospiti. Per noi melanzane impanate, olive, carne asada, cose semplici e genuine. El Chupete è un personaggio, simpatico e pratico, ma soprattutto poetico; ci facciamo una risata quando lo definisco lo Jodorowsky della Quebrada. Il suo vino del 2021 è tra i più strabilianti assaggiati, un frutto fresco e croccante ma con un’acidità molto ben equilibrata, corpo elegante, tannino leggero e maturo, un fortissimo sentore di pepe rosa e una delicata nota animale dolce. Un vino psicomagico. Scoprirò poi che per irrigare usa l’acqua di uno stagno in cui vivono oche, anatre, galline.
Nel pomeriggio ci dirigiamo ancora più in alto a Viñedos Yacoraite nell’omonima località (2777m s.l.m.). Qui ci accolgono Francisco, Isaac e David, tre operai agricoli indigeni, nei terreni di Alexandro Izquierdo, un economista argentino che vive a Washington. Qui Ezequiel e i tre indigeni sperimentano la fertilizzazione naturale in vigna con le pecore, con dei sistemi di protezione per le foglie delle piante. Progetto e luogo interessanti, ma si percepisce l’anima più imprenditoriale.
El Bayeh
Tornando da un trekking solitario alla Garganta del Diablo di Tilcara mi dirigo a Maimará, ai piedi della meravigliosa Paleta del Pintor (una montagna chiamata così perché ricorda una tavolozza di un pittore), dove ci sono i vigneti di El Bayeh di Daniel Manzur. Siamo vicini a Fernando Dupont, pioniere nella Quebrada de Humahuaca, che iniziò a piantare vigne e a fare vino nel “lontano” 2003, quando ancora quasi nessuno lo pensava possibile.
El Bayeh, nome a cui è dedicata l’azienda, era il nonno di Daniel che si stabilì qui nel 1971, dopo esser stato commerciante di frutta e verdura nella regione. Tutta la famiglia incominciò a lavorare la terra, soprattutto suo padre che dovette prendere in mano l’attività a soli tredici anni d’età, a causa di una paralisi che colpì il nonno. Fu sempre lui a voler impiantare una vigna, venuto a sapere di un direttore d’orchestra italiano che portò qui negli anni Venti viti e vacche da latte. Leggenda vuole che a causa della scarsità di cibo le vacche mangiarono le foglie della vigna, che quindi morì. L’attuale conformazione aziendale più moderna ha coinvolto tutta la famiglia: papà, sorella, zio e cugini hanno iniziato insieme ad investire nel vino impiantando le vigne nel 2019 e costruendo l’attuale cantina.
La conduzione è biologica e la fertilizzazione avviene con letame di capra maturo proveniente da un allevamento di loro proprietà. Qui a Maimará, a circa 2400 m s.l.m. coltivano malbec, syrah, semillon, chardonnay e uva criolla; a Huacalera, a 2650 m s.l.m., hanno recentemente acquistato vigne di dieci anni con cabernet franc, malbec, merlot, tannat, pinot nero e sauvignon blanc.
La cantina, di recente costruzione, è ben coibentata e contiene grandi vasche di cemento usate per le fermentazioni, anfore di terracotta per i vini bianchi e le uve criolla, botti grandi in rovere per i rossi e qualche bianco più importante, poche barrique nuove utilizzate solo per le riserve.
Hanno poi un interessante progetto denominato “pequeño parceleros”: prendono uva criolla da ottanta piccoli produttori qui vicino e ne vinificano separatamente le tre zone differenti: Criolla de Tilcara 2021 ricorda molto il ribes rosso e il molle, ha una bella acidità, ma integrata, che invita molto a bere, con leggera sapidità e leggera amarezza sul finale, come un’amarena fresca; Criolla de Maimará 2021 ha un frutto più presente e più rotondo anche grazie all’uso di legno grande, è più sapido e ha una leggera nota di brettanomyces, un lievito indesiderato che talvolta contamina le botti, che però non compromette la piacevolezza; Criolla de Carmen Purmamarca 2021, con uve criolla di una singola produttrice, è ricca sempre di pepe rosa, questa volta unito ad altre spezie grazie all’uso di legno piccolo che dà anche in bocca maggiore tannino, complessità e rotondità, ben sorrette dall’acidità tipica dei piccoli frutti rossi.
D’incredibile esperienza anche il Tropico Sur 2020, sauvignon blanc di Huacalera, un anno in anfora con flor, un velo di lieviti superficiali che protegge il vino dall’ossidazione, e poi due anni di bottiglia: un’esplosione di asparago fresco e di pisello verde appena raccolti, sia al naso sia in bocca, dove trovo anche una grande sapidità che aumenta la salivazione e invita piacevolmente a finire la bottiglia.
E’ ora di pranzo e Daniel m’invita gentilmente da lui e Eugenia, sua compagna. Preparano del maiale asado e un’insalata di pomodori e cetrioli dell’orto e, confrontando le nostre cucine, mi chiede di essere io a preparare la pasta al pomodoro, per apprenderne i trucchi. Ne usciamo entrambi soddisfatti e arricchiti.
Nel viaggio di ritorno penso a quanto sia emozionante lasciarsi incantare dai paesaggi, viversi la difficoltà degli spostamenti, entrare in un mondo remoto apparentemente a sé stante ma al contrario pronto ad accogliere e a farsi contaminare. Se i vini di queste zone incuriosiscono per l’altitudine estrema, grazie alla quale sono intensi e complessi ma allo stesso tempo freschi e vibranti, sono i luoghi e le persone che li rendono davvero indimenticabili.
Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 29
16 pagine | 24x34cm | Carta Nautilus Classic gr 100
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org
Last modified: 7 Ago 2023