SULLE BRECCE
Casa Brecceto, vignaioli ad Ariano Irpino. Esperienza agricola in un territorio “interno” e “marginale”, qui naturale non è etichetta commerciale ma uno degli strumenti per produrre vino e relazioni di qualità
Testo e fotografie di Laura M. Alemagna
Esci dai Quartieri Spagnoli in auto. Sudi al pensiero, «ci metteremo la giornata». I Quartieri, in macchina di più, sono un dedalo incomprensibile di salite e scale, una litografia di Maurits Cornelis Escher. Sei nel giro infinito del tribarre, la palla argentea che rimbalza nel flipper. Ne veniamo a capo dopo qualche imprecazione e puntando dritto a platform 9¾.
Partiamo da Napoli, direzione Ariano Irpino. Il tragitto non è breve e abbiamo mezza giornata, ma quando ci ricapita. Viviana ci presta generosamente la sua auto dunque non abbiamo scuse.
Ariano
Il viaggio verso Ariano segue una costellazione che accomuna tutta la provincia italiana. Un alternarsi contraddittorio di verdi campagne, meleti, colline, e coltri di capannoni, fiumi ridotti a torrenti, centri abitati informi.
Ariano sappiamo essere una cittadina d’una certa sostanza. Ha il suo presidio ospedaliero e la questura. Geograficamente è snodo, baricentro, pensata per essere un centro di servizi. Equidistante dai due mari, strategico teatro di passaggi.
FIAT provò a fare lì intorno un polo industriale negli anni Settanta. Di quell’arrembaggio rimane oggi una storia di alti e bassi, di delocalizzazioni e dismissioni. Resiste un pezzo dell’ex Iveco, l’Irisbus di Valle Ufita dell’Industria Italiana Autobus, con una produzione limitata a piccole forniture per autobus bolognesi. Poche commesse e poco strutturate. All’orizzonte emerge il miraggio del PNRR, la scommessa del secolo, il piano strategico sull’alta mobilità intermodale, i terminal e le piattaforme della logistica per le ZES (Zone Economiche Speciali). Diciotto milioni di euro si dice. Si dice che sarà una rivoluzione.
Distinguiamo, sulla strada, il grande carcere con le sue sezioni di massima sicurezza. Proseguiamo.
Irpinia
Dell’Irpinia. Nella memoria sappiamo del terremoto più infausto della nostra storia. Sconvolse rovinosamente quella terra nel novembre del 1980. Cancellò quasi tutto, lavoro e sogni di chi ci stava, di chi l’Irpinia l’aveva lasciata per emigrare in Germania. Lavorare là per costruire casa a casa. Franse vita e fatiche, il desiderio di ritornare non aveva più motivo d’essere. All’annientamento del terremoto seguì uno spopolamento gravissimo, mai arrestatosi. Tra Irpinia e Sannio sono ancora dodicimila le anime in fuga ogni anno. Un esodo che registri al passaggio, nei luoghi in abbandono.
Vin de garage
Arriviamo. Sulla strada ci vengono incontro Igor Grassi e Fortunato Sebastiano accompagnati da Ciccio, cane lupo giocherellone che da lì a poco ci addestrerà al lancio del bastone. Li seguiamo in auto nel tempo di una curva. Ci ritroviamo su un ampio cortile luminoso e assolato. Non sembra, ma siamo a 670 metri slm e Ariano è ancora più su a 800. A Napoli c’avevano detto «A Ariano Irpino fa troppo freddo». Invece la giornata è calda e conforta.
Fortunato e Igor sono, nella corposa brigata di Casa Brecceto, quelli che conosciamo meno. A La Terra Trema bazzicano Mario Manganiello, Maria Teresa Ciccarelli e Raffaele Grasso ma, questi ultimi, quando arriviamo, sono impegnati su due fiere diverse.
Casa Brecceto arriva alla Fiera Feroce nel 2019 e si presenta a noi coi modi gentili e la curiosità di Oto Tortorella, mancato prematuramente nel 2020 (e la sua eredità verrà raccolta da Maria Elena, la moglie).
Fortunato dice di quando partecipò per la prima volta nel 2003, con Viticoltori De Conciliis, produttori cilentani per i quali lavorava, chiamati a raccolta dal Critical Wine di Veronelli e dei centri sociali. Accanto al loro stand quello di Bartolo Mascarello «ultimo dei Mohicani», il suo Barolo urlante «No Barrique, No Berlusconi». Un’era enoica fa.
CW, con la sua possibilità di confronto e dialogo totale, per l’ambito così vicino alla loro storia di militanza, fu segnante, ispirazione e spinta a portare avanti quell’«esperimento sociale» che, tra 2000 e 2001, aveva intrapreso con gli amici fraterni Igor e Oto intorno al vino.
Fortunato era l’unico con una formazione d’ambito, fresco di laurea in Agraria a Pisa, era tornato ad Ariano desideroso di mettersi all’opera. Igor e Oto, venivano da altri mondi. Grafico talentuoso il primo, uomo d’informatica il secondo. Nessuno aveva una tradizione contadina alle spalle. Il tessuto sociale era cambiato già da qualche decennio, le campagne si erano svuotate. Loro sentivano forte l’esigenza di dare una forma diversa a quel rito conviviale e materiale consumato ogni giorno. Il vino di territorio volevano farselo da soli, volevano fare i conti con le sue potenzialità, volevano farlo bene. Iniziano così, acquistando uve del posto, diraspandole a mano, vinificando nel garage di Oto. Garagisti, letteralmente e spiritualmente vin de garage e una venerazione per l’aglianico. Nasce AraJani Enoprogetto: rito folle e magico nel suo rigore.
Non passa molto prima che si materializzi la possibilità di acquistare e lavorare le proprie vigne, vinificando così la loro prima idea di Pitatza, vino carbonaro e corsaro, aglianico in purezza dell’anno 2003. Da lì in poi il sodalizio si struttura accogliendo via via nuovi soci, acquisendo vigne già avviate, anche storiche, guardando anche ad altre varietà: fiano, prima di tutto, poi piedirosso, coda di volpe, greco di Tufo, sciascinoso. È una scommessa e ne hanno consapevolezza. Delle volte tocca recuperare vecchi vigneti, magari da anziani, magari potati male per troppo tempo. Significa assumersi un rischio. È difficile, si tratta di ragionare a lunga scadenza, accettare di far ripartire le produzioni quasi da zero, aspettare anche anni prima di «tornare in equilibrio».
Casa
Il dialogo con Igor e Fortunato è interrotto da un vivace viavai di visite, nipoti, amici. Sono visite al luogo. Casa è parola presa alla lettera. C’è chi viene qui per la possibilità di soffermarsi su quell’orizzonte che guarda alla Dormiente sdraiata del Sannio, alla Valle Telesina, Avellino da una parte, Salerno dall’altra. Un crocevia. Il largo piazzale è chiuso da due edifici, la casa cantina e un rudere settecentesco cui si appoggia un magnifico nespolo. Avanti alla casa le vigne seguono in discesa la lieve vallata. Filari di ulivi delimitano l’altro lato attiguo alla piazzola. Sono stati spostati quando si è deciso di impiantare anche lì. Un lavoro enorme e accurato, duecento piante spostate, tutte sopravvissute. «Ne è morto uno», su duecento ulivi bicentenari è una conquista.
La varietà locale di oliva è la ravece, antica cultivar ravej. Le drupe sono sostanziose, di taglia medio grande. È una varietà che conosciamo bene, è la stessa su cui lavora da decenni Michele Minieri, qui vicino, in Valle dell’Ufita. Michele, Michele il sapore di foglia di pomodoro e piccante, Michele ravece e ogliarola. Michele «Beniamino, le scatole di cartone da raccogliere», Michele gli scambi «quanti sott’olio per una felpa?».
Aziende vinicole qui non ce ne sono mai state tante. Eppure ci sono grandi potenzialità, c’è una tradizione vinicola (ad Avellino fu istituita nel 1879 una delle prime scuole di enologia d’Italia), c’è l’esperienza loro, quella di Cantina Giardino e poi poco altro, forse in futuro. La memoria vinicola si è persa quasi del tutto, nel tempo, oggi si comincia a guardare a varietà d’un tempo, come l’aglianico lasco (varietà locale, biotipo tracciata nel Novecento). Permangono ulivi, vacche da latte, noce e nocciola, grano e seminativi sul versante che guarda alla Puglia, geograficamente più vicina con la Daunia alle porte.
Brecceto
Tra il 2017 e il 2018 il progetto, ormai maturo, cambia nome. Apre a nuovi orizzonti e alle possibilità. Non solo Pitatza e Scazzuso. La produzione si amplia, quel vino merita altre tavole oltre le loro e quelle degli amici e degli spazi autogestiti. AraJani lascia il posto a Casa Brecceto. Il nome è quello della località e dice dalla natura del suolo, dalla conformazione alluvionale su questo versante. La breccia irpina tanto usata in edilizia viene da luoghi simili a questo. Geologicamente questo territorio si chiama Sella di Ariano, nella sostanza molto diverso dal resto d’Irpinia. È una zona di origine marina, sede di spiagge preistoriche, fatta di rocce arenarie ricchissime di fossili marini del pliocene, gesso, sostanza organica e ciottoli. Terreni profondi e spesso calcarei che sono una manna per i vigneti.
Il rapporto di Casa Brecceto con la vigna è una storia di osservazione attiva e costante. Certo si dice di intervenire il minimo indispensabile, ma è impensabile l’eventualità di lasciare che faccia tutto da sé: «Se non fai niente, con queste stagioni calde e asciutte, su questo terreno muoiono tutte le piante, la vigna non fa da sola, vuole essere accudita».
Fortunato e Igor dicono che anche quest’anno ha piovuto troppo poco e così anche nelle annate passate. La vasca di raccolta sotto una quercia tra le vigne è vuota. L’Ufita è in secca, in questi giorni è meno che un torrente. Tutto questo ha degli esiti. Marzo solitamente è periodo di potatura ma ancora non si azzardano. Il clima è stato troppo caldo, l’inverno tardivo, le piante sono andate in fase dormiente molto tardi, non si può toccarle proprio adesso. C’è da aspettare.
Le incognite sono infinte. Da queste parti una gelata e una potatura prematura sarebbero rovinose.
Ci vuole presenza costante, quotidiana, un controllo certosino e attento. I cinghiali, piaga nazionale, sono assetati, fanno sempre più danno. Quest’anno dovranno chiudere con l’elettropascolo. Bestie geniali fanno insegnamento delle loro esperienze. Difficilissimo contrastarle. Seppur il lupo sia stato re-introdotto, poco può contro questi animali. «Hirpus animale guida di queste terre, dove sei finito?» chiediamo a Ciccio mentre ci porge il bastone da lanciare.
In campo seguono lune e usano preparato 500, sovesci nelle vigne più vecchie. Per le piante giovani praticano sfalcio a filari alterni perché ancora troppo forte la competizione col prato inerbito.Una delle vigne segue un progetto sperimentale dedicato all’aglianico lasco, non è ancora in produzione perché le piante sono troppo giovani.
Pur possedendo vigneti a Mirabella Eclano non fanno Taurasi. Potrebbero, ma per le implicazioni burocratiche, economiche e d’attitudine sono convinti che non valga la pena.
La Docg Taurasi prende diciotto comuni, tra cui Mirabella, loro però si sentono troppo lontani, come approccio, pensiero, emotivamente, commercialmente non avrebbe senso. Il loro Taurasi, inoltre, da disciplinare andrebbe a togliere aglianico (in invecchiamento) al loro amato Pitatza.
In vigna nulla è lasciato al caso, è tutto studiato, come in cantina. Non è solo natura, lo sanno. C’è attenzione, ci sono errori e prove. La narrazione sui vini naturali è accettata ma con la consapevolezza che può generare anche propositi inverosimili.
È tutto a incastro
Quando arriva la necessità di progettare una cantina strutturata ed efficiente pensano a una costruzione in parte interrata col tetto isolato da terra inerbita, botole in alto affinché le uve arrivino a caduta.
Non c’è tecnologia, serbatoi e tini sono aperti. Hanno una pressa che ha sostituito i torchi a mano usati diventati troppo piccoli. Le pompe sono uno dei pochi investimenti che si sono concessi. C’è una zona per la fermentazione.
Questo interno irpino è un piccolo tetris ragionato, pulito, rigoroso. È tutto a incastro, le zone sono agili, si lavora in sequenza, quando necessario si sposta tutto con un transpallet elettrico, a cominciare dalle anfore, in uso da qualche anno. Le usano per tutto, come contenitori, al pari dell’acciaio. Non c’è la volontà di segnare, ma di sfruttare la loro praticità. Sono preferibili all’acciaio perché l’acciaio non ossigena per niente. Sono più comode del legno, da pulire, da spostare nel loro sistema di incastri. E sono anche aromaticamente più neutre. Qui sono un bel numero, non tutte uguali, di diversa fattura in quanto a temperature di cottura e permeabilità. Quest’anno ha preso posto anche una botte in vetroresina. Un’ulteriore possibilità (soprattutto per il piedirosso).
Sono spazi aperti a un lavoro di fino, vino per vino. Le macerazioni, ad esempio, non devono omologare, non possono essere identiche per tutti i vitigni, altrimenti banalizzi, mortifichi, rendi loro poco onore.
«L’aglianico è uno stronzo»
L’aglianico è impegnativo. Se in cantina è potentissimo, in pianta è molto delicato. La buccia sottile è sensibile a tutto, oidio, peronospora, botrite. E matura molto tardi. Alle loro altitudini si arriva a raccoglierlo anche nei primi di novembre. In vigna richiede attenzione da fine marzo a novembre, «una champions league» senza tregua.
Quest’anno è stato raccolto in quattro passaggi, il primo è stato lasciato a terra: le uniche piogge sono arrivate nel momento sbagliato, gli acini pregni d’acqua si sono gonfiati fino a spaccare la buccia. Uve così non potevano entrare in cantina. La scansione dei passaggi è l’ennesima scommessa, se l’aglianico l’hai lasciato in pianta per il Pitatza e a ottobre piove al Pitatza puoi dire addio.
In cantina si prepara a parte il suo pied de cuve (uno starter di fermentazione) perché l’uva arriva anche un mese e mezzo dopo le prime fermentazioni. Nell’aglianico però riconoscono molte sfumature. Pitatza è una selezione di aglianico invecchiato, fermentazione spontanea, una ventina di giorni di macerazione, passa diciotto/venti mesi tra botte e anfora e altri dodici mesi in bottiglia, preferendo l’affinamento in bottiglia a quello ossidativo. È l’ultimo esito della raccolta. Il primo è lo Scazzuso, un insolito blend all’inizio da aglianico e lambrusco (storico, vigne d’altura di sessant’anni) adesso da aglianico 60%, piedirosso 30% e sciascinoso al 10%. Nel Guizzo (quando si fa) all’80% di aglianico si unisce il 20% di piedirosso per cui la fermentazione è a grappolo parzialmente diraspato, a volte a grappolo intero, ed è affinato in anfora.
Se l’aglianico ha in cantina potenza e struttura, il piedirosso è una specie di suo alterego, doppelgänger, alla dottor Jekill e mister Hyde, «è il nostro pinot noir per leggerezza, ha quasi più tannini il greco di lui». Le declinazioni di Casa Brecceto sono Picaro da solo piedirosso, che fa cinque/sette giorni di macerazione sulle bucce, per il 25% a grappolo intero in infusione, delle volte entra lo sciascinoso.
Tutt’altro piedirosso lo abbiamo incontrato il giorno prima in quel meraviglioso luogo che sono le porte degli Inferi e il Vigneto Storico Mirabella lungo il versante nord-orientale del cratere dell’Averno col suo lago. A piede franco, su terre sabbiose di origine vulcanica. Altre altitudini, dai 50 ai 200 metri sul livello del mare, altri elementi (Emilio Mirabella a Cantine dell’Averno vale il tempo lungo di una visita perché ben si mangia e ben si beve). Il fiano è rappresentazione più materiale di questa Irpinia, nella sostanza, nella durezza. Nadar Bianco, omaggio al fotografo e al suo gigante, è fiano in purezza che fa brevissima macerazione pellicolare in tini aperti (e sa di salvia, spezia, polvere da sparo). Nello Scazzuso Bianco oltre a fiano, trovi coda di volpe, greco di Tufo, fa due giorni di macerazione.
Il greco di Tufo fa 7/8 giorni di macerazione sulle bucce per il loro Sassafrass Bianco (secco e sapido, noce in bocca con un po’ di buccia di arancia alla fine).
Greco è la base di una delle ultime novità dalla Casa: Rancio (saranno 500/600 bottiglie). L’altra sarà Almanacco, «il loro spumante» rifermentato, «metodo annuale» da fiano (la base del 2021 è rifermentata con il mosto del fiano 2022).
Sono morbidi tangram
Tra le etichette, disegnate da Igor Grassi, alcune hanno nei nomi e nella foggia stampo teneramente veterocomunista. La moto del Che, la gloriosa Norton 500 M18, per Lapoderosa (coda di volpe breve macerazione pellicolare per sei giorni); una stella rossa presa a navigare sui mari per i due Granma. Granma Rosato Frizzante, (aglianico a spremitura diretta, fermentazione spontanea, quella iniziale in acciaio, rifermentazione in bottiglia con mosto di piedirosso) e Granma Bianco Frizzante (da falanghina con breve macerazione pellicolare con mosto di fiano, bianco «agitato»).
Su certe botti sono scritti a gessetto epiteti scherzosamente estremisti. Dureranno il tempo del passaggio in botte. Diciamo, «sorvoliamo!», per non rischiare il favoreggiamento al processo.
Il passaggio in cantina è un viaggio introspettivo e intimo. Con attenzione si valutano i sentori, si scovano e affrontano le eventuali riduzioni, si ragiona sui travasi.
La padronanza di Fortunato è strutturata da un’esperienza più che ventennale. Ha preparazione e conoscenza del territorio impressionanti. Nel corso degli anni ha lavorato sul campo non solo ad Ariano ma nell’intera Campania e oltre. Conosce a menadito quelle uve e sa come declinare le possibilità di ognuna di esse. Nel paradosso che attraversa la narrazione sul vino, nell’esponenziale produzione di linee guida, di mode e modelli, dietro un vino di territorio non sempre trovi un vignaiolo di territorio. Fortunato è vignaiolo di territorio. Scopriamo che sono tante le aziende che segue e molte di queste le conosciamo bene. Ora possiamo leggere la sua mano in altri fiano, in altri Taurasi.
Dopo oltre vent’anni il rigore riposto nel lavoro in vigna e in cantina deve ancora lasciare spazio alle forze folli e magiche di questi legami affettivi amicali, familiari. Malgrado le difficoltà, i lutti, le lotte sono motore propulsivo fondante. «Festeggiare la vita», i suoi mille risvolti, le coincidenze, gli incroci, gli inciampi, le possibilità di condivisione e crescita comune. La mezza giornata a disposizione corre veloce, nonostante gli impegni Fortunato e Igor ci permettono il lusso di un pranzo da consumare insieme in cortile. Le rispettive compagne Nina e Marianna arrivano con saporite vettovaglie. Ci raccontano della rete di relazioni che anima questa zona, dei luoghi di incontro, di elaborazione culturale, delle comunità in lotta nonostante lo svuotamento. Uno sciame nomade, curioso, rumoroso che va e viene da questo panorama con Dormiente.
Salutiamo, dobbiamo andare. Abbiamo un tempo limite per tornare a Napoli «alle 18.30 c’è il presidio per Ugo Russo» e il volto di Marianna si apre per un sorriso acre: «Ugo Russo, lo conoscevo bene, lavoravo nella sua classe. Era un ragazzo di cuore, non volevo crederci che fosse morto così».
Ugo Russo è ritratto in un maestoso murale ai Quartieri Spagnoli dipinto da Leticia Mandragora alcuni mesi dopo la sua morte nel 2020. I funerali furono proibiti dai decreti e quel disegno sembrava giusto per sublimare un minimo la disperazione di chi lo aveva perso così. Piazza Parrocchiella splendeva del bianco e dell’azzurro pulitissimi dietro il volto di questo ragazzo, piastrelle lustre come di cucina sulla strada. Il comune ha richiesto di rimuovere il volto di Ugo e di fatto, poco dopo, così è successo ma la richiesta suona ancora assurda, insana e scriteriata. Non si può chiedere di cancellare la storia di un ragazzo dei quartieri freddato a quindici anni. Non si può pensare di far sparire dietro il ducotone abusi, memoria, dolore, abbandono. Napoli mai ha permesso ci fossero anime pezzentelle, qui si tratta di un suo figliolo, come si fa a chiederlo? La morte di Ugo Russo ha creato una frattura. È morto per tre colpi di pistola, di cui uno in testa sulla via di fuga, sparati da un carabiniere non in servizio. Aveva tentato una rapina con una pistola giocattolo e ai benpensanti, alla stampa, all’opinione pubblica è bastato per farne questione di spregio senza contraddittorio.
Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 28
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
Per ricevere e sostenere questa pubblicazione: info@laterratrema.org
Last modified: 7 Ago 2023