Ricordi di un’estate sulle Madonie
Giulio Gelardi, custode solitario di un mestiere che non vuole fare più (quasi) nessuno.
Testo di Martina Motta
Fotografie di Marginal Studio
Siamo Martina, Francesca e Zeno, dì 15 luglio, su una Panda 4×4. Abbiamo appuntamento con il signor Vincenzo lungo la strada statale 130, direzione Pollina, al bivio di Montenero; lui avrà una Lancia grigia e ci indicherà la trazzera giusta da prendere per arrivare al campo di Giulio; dice che altrimenti ci perderemmo sicuramente. Dopo 5 km di sterrato e giravolte arriviamo a destinazione.
Di Giulio Gelardi parlano in molti ma in pochi l’hanno incontrato, dice Vincenzo che è “la leggenda della manna”.
Ci aspetta appoggiato a un frassino. A vedersi, Giulio pare una meliade, ninfa degli alberi di frassino, perché è lungo, sottile, chiaro fra i fusti. Ci stringiamo forte la mano, ha una folta chioma bianca e un gilet da pescatore con le tasche, immaginiamo per tenere tutti i ferri di quello strano mestiere. Sono le cinque del pomeriggio, ecco i grilli e il sole che ormai si arancia. Ci guardiamo attorno con vera meraviglia. Nel suo campo è come stare in mezzo a un concerto, o dentro il labirinto di Arianna: i frassini sono (sembrano?) tantissimi e fili luccicanti di manna colano da tutte le parti. Siamo davvero confusi da un “hardware” tanto poetico. I fili di manna paiono scambiarsi scintille.
«Venite, ecco qua delle birre», un pacchetto di sigarette e siamo seduti attorno a Giulio su delle sedie da campeggio pieghevoli. Non resistiamo oltre e gli chiediamo di raccontarci del lavoro della manna.
La manna, l’industria della manna, i cannoli
Dopo avere passato la sua gioventù a fare raccolta tra le comuni agricole d’Italia, nel 1985 Giulio torna a casa a occuparsi della raccolta della manna, l’attività della sua famiglia. A trentacinque anni è il più giovane dei circa duecento produttori del comprensorio tra Pollina e Castelbuono, segno di un disinteresse prolungato delle nuove generazioni. Come biasimarle, d’altra parte, con il misero valore di duemila lire pagato al chilo e di seimila per i “cannoli” (le stalattiti di manna).
Loro ci lavoravano in tre: Giulio e i suoi genitori. Nei due mesi di lavoro che la manna richiedeva, a malapena ci coprivano le spese con quelle paghe.
«Tutto questo, mentre il mannitolo arrivava in farmacia a centosessantamila lire al chilo!», dice Giulio con amarezza, che pare stia carburando il motore mentre stringe tra le dita la terza di tante sigarette che dovranno arrivare da lì a poco.
Giulio dice che, se vendi all’industria, con i prodotti agricoli riesci a sopravviverci a stento nelle annate buone e a morire di fame nelle cattive.
L’industria invece si arricchisce trasformando qualsiasi prodotto, pagando la materia prima pochissimo, facendo in modo che il guadagno vada solo lì, nella trasformazione.
E fa di peggio. Pure se il tuo prodotto è di altissima qualità l’industria prima o poi troverà un succedaneo più economico in modo da sostituire quella materia prima sempre troppo costosa per lei.
Mettici che la manna si raccoglie graffiandola dal tronco con una spatola e che, siccome è appiccicosa, viene via insieme a pezzetti di legno, formiche, cicale, foglie e tutto il resto «un casino dell’altro mondo», che il contadino si trovava a sentire che la sua materia prima di qualità «non valeva un tubo» e che quindi doveva essere venduta a un prezzo bassissimo.
Alle case farmaceutiche e alle industrie dolciarie interessava il mannitolo ma nel giro di poco il succedaneo fu trovato fermentando le tonnellate di scarti di mellito degli zuccherifici da barbabietola da zucchero. A quel punto la manna non serviva neppure più: l’industria aveva azzerato il problema della materia prima facendola scomparire.
Giulio fin dal principio decide di non produrre mai manna per l’industria, sa di dover riuscire a fare un prodotto da vendere direttamente, dice: «piuttosto che ingrassare terze persone, industrie, commercianti, ci dovevo ingrassare io».
«Il contadino non ha capito una cosa fondamentale», dice Giulio, «a ogni passaggio, il prezzo raddoppia». Quel lavoro però non dev’essere una catena di montaggio a favore dell’industria, il ciclo deve chiudersi prima.
In Sicilia la manna si vendeva a sacchi di iuta, a quintali, come un prodotto che non valeva niente. Giulio invece aveva iniziato a fare i primi esperimenti per ottenere i cannoli di manna in modo da riuscire a commerciare direttamente il prodotto puro. All’inizio usava i fili d’erba, poi di cotone o d’acciaio. Il risultato migliore veniva senza dubbio utilizzando il nylon.
Il lavoro consiste nel fare su ogni frassino dalle due alle tre incisioni, non molto profonde, ma quanto basta per farle lacrimare. Dal taglio, si tendono i cordoncini di nylon fino a ciotole o pale di fico d’india poggiate a terra. La linfa che esce così si cristallizza in lunghezza, creando stalattiti di 2-3 millimetri di spessore perfettamente dure.
Siamo scesi a vedere, ecco i cannoli di manna.
Fra leggende bibliche e storie di illuministi
Chiediamo, dopo tanti discorsi su tecniche, industria e lavoro, di sentire la storia della manna. Potrebbe essere stata portata dagli arabi, popolo più evoluto che al tempo portava una quantità enorme di cose buone in Sicilia, dall’arancio alla manna, ma è un forse. A Giulio piace pensare che siano stati i greci in fuga dall’Egitto verso la Sicilia, e che poi gli arabi l’abbiano scoperta. Qui di fronte c’è Gibilmanna, “Monte della manna”, Jabal Mann.
Quando Giulio è rientrato in Sicilia, si è messo a cercare ogni libro possibile esistente sulla manna per conoscerla a fondo. Lì si è accorto che non solo c’era poco o nulla di scritto, ma che quello che si leggeva era spesso sbagliato. Si diceva, ad esempio, che la manna si producesse solo in quella vallata per condizioni cosiddette “pedoclimatiche”. Ma la manna si faceva anche altrove! Dopo diverse peregrinazioni all’Archivio di Stato tra i documenti studiati, Giulio aveva scoperto che nel Seicento tutta la manna italiana aveva la denominazione di “manna calabrese”. La quantità più grande si produceva in Calabria, e non solo, era riuscito a individuare un’altra cinquantina di luoghi di produzione, tra cui il Gargano, il Lazio dietro Civitavecchia, la Maremma toscana.
Tra le fonti documentarie che Giulio ha studiato negli anni ci sono ovviamente i resoconti dei viaggiatori stranieri in Italia, dal Cinquecento al “Grand Tour”. Pensiamo quindi subito a Goethe e al suo Viaggio in Italia. Goethe però non ne parla, forse perché approdò in Sicilia a maggio, e dalla Calabria passò d’inverno; insomma, fuori stagione. Pare tuttavia che ne avesse sentito parlare, perché durante il suo viaggio la menzionò a proposito di un quadro di Felice Brusasorci, conservato a Verona e che ritrae una raccolta della manna.
Nel Cinquecento ci fu una diatriba tra quelli che sostenevano che la manna fosse prodotta dal frassino, e quelli che dicevano che era il cielo a produrla e che il frassino fosse solo capace di attirarla.
Per la Chiesa la manna era un affare biblico: solo Dio la sapeva fare. Non a caso una ciotola di manna venne riposta nell’arca dell’Alleanza assieme alla verga di Aronne e ai Dieci Comandamenti. Nel deserto del Sinai però non crescevano frassini, è difficile pensare che si potesse fare manna. Sembra che lì ci sia un prodotto che chiamano manna, che è un essudato dei tamerici. C’è anche la colocasia esculenta, un lichene che appena piove si spacca e fa sbocciare una rosa che produce un seme poi trasportato dal vento. La Genesi ci dice che piovve per quarant’anni…
Una cosa che cadeva dal cielo, nutriente, la scoperta di un nuovo cibo. Questa cosa era forse una manna, per la Bibbia. Tanto più se proveniva dal frassino, una pianta marittima, che però faceva questa cosa dolcissima!
Studiando i documenti antichi, si trovano anche riferimenti alle tecniche per estrarla. Ne parla il botanico siciliano del Seicento, Paolo Boccone, riferendosi alle tecniche usate in Calabria. La manna veniva divisa in tre parti: la manna di foglia, la qualità migliore in assoluto e che veniva in granellini rotondi; la manna forzatella, di seconda qualità, che si faceva sul tronco, probabilmente per incisione; e la terza, una sorta di combinazione delle due. Nel Settecento una poesia di Giovanni Mele menziona sì le incisioni, ma non come si facessero, poiché era cosa da contadini.
Giulio ci dice di come i contadini fossero visti come servi della terra e disprezzati, di come non venisse dato peso alla loro cultura e alla qualità del loro sapere. C’è sempre stata usurpazione delle conoscenze contadine: l’Illuminismo le aveva sfruttate al massimo, appropriandosene senza citarle mai, anzi impiegando nomi in latino per dire che erano una cosa nuova.
«Se la conoscenza contadina è un dato di fatto dell’uomo collettivo, quello che pensava un qualsiasi Diderot era e rimane un pensiero solamente suo», dice Giulio.
Oggi sappiamo che la manna è un ottimo prodotto per cosmetici, perchè la mistura degli zuccheri della manna, quelli del mannitolo, e dei sali minerali che contiene è un detergente naturale eccezionale. I contadini questa cosa l’hanno sempre saputa: «cu arrucogghi manna, risparmia sapuni e i robbi venunu bianchissimi». Conoscevano anche che fosse un ottimo emolliente per la pelle: «u ‘ntaccalore u parcarro». Ntaccalore è la persona che ntacca, ma anche il coltello della manna.
I saluti
Il messaggio di Giulio e della sua manna è anche un messaggio contro l’accumulazione: se ne deve raccogliere solo la quantità giusta per vivere, se ne raccogli di più non la riesci a mangiare, e questa fa i vermi. Per Giulio la politica e la terra sono un’entità indivisibile e una trae ispirazione dell’altra.
Ci salutiamo, il sole è ormai quasi dietro il “Monte della manna”, Giulio ci fa strada con la sua Panda per tornare in paese.
Il catasto agrario del 1929 conteggiava oltre seimila ettari di frassineti specializzati in Sicilia. Questi erano localizzati in tutta la valle del Pollina, con i paesi grossi di Pollina, Castelbuono, Isnello, San Mauro, Geraci, Cefalù. A Gangi c’erano due produttori e a Polizzi uno, e a Collesano Giulio ha trovato un campo di frassini in mezzo al bosco. Nell’altro versante, a Tusa, c’erano due salme, cioè sei ettari di frassineto, e poi a Cinisi, Capaci, fino a Castellamare del Golfo e Isola delle Femmine. Ultima stazione: Erice. Seimila ettari voleva dire almeno quarantamila persone coinvolte, un’industria grossissima.
Oggi sono rimasti una decina di produttori tra Pollina e Castelbuono. Giulio Gelardi, con mezzo ettaro di frassineto da manna, è l’unico della sua generazione e il più grande produttore di manna rimasto.
Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 26
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
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Last modified: 7 Dic 2022