L’agricoltura può essere ancora arte sacra. Domenico e suo figlio Francesco, nell’Alta Pianura Lombarda, la vivono e animano con naturalezza e passione.
Di Laura M. Alemagna e Paolo Bellati
Fotografie di Alfredo Ferrario e Laura M. Alemagna
C’è stato un tempo in cui questa modernità deve essere piaciuta e deve essere sembrata – anche – salvezza. Il calcestruzzo, le colate di cemento, i grandi cartelloni, la musica dagli altoparlanti, i posti auto nei parcheggi sterminati e i neon, enormi, a illuminare le notti e farsi come nuove costellazioni, nuovi punti di riferimento. C’è stato un tempo in cui qualcuno ha visto ergersi queste cattedrali e ha guardato con sollievo. Prima c’era solo un paesello, c’era un campo coltivato, c’era un prato incolto.
Poi si è capito. Tutto è esploso, è diventato orrida routine allo sguardo e per la mente. Poi i capannoni, i centri commerciali, sono diventati mille, ci hanno circondati, ci hanno seppelliti.
Domenico Zaffaroni l’abbiamo conosciuto meglio al Mercato agricolo e delle autoproduzioni del C.S.O.A Cox18 a Milano. Ci eravamo già incontrati, fugacemente, nel 2015 quando aveva partecipato con i suoi formaggi di capra a Seed Vicious – Semi di resistenza – Scambi di semi e mercato agricolo, una manifestazione che organizzammo al Leoncavallo con Civiltà Contadina poco prima dell’inaugurazione di EXPO2015: una cinquantina di realtà tra produttori, agricoltori, contadini, associazioni e scambiatori di semi chiamati “a raccolta perché quello che prospetta Expo2015 Nutrire il pianeta è ipocrita vetrina del suo esatto contrario”.
In Conchetta, al mercato domenicale, partecipiamo sempre volentieri. Portiamo L’Almanacco e i Vini della carta della terra del Folletto25603. Il clima è piacevole, chiacchierante, gli incontri belli, gli scambi vivaci e lo storico spazio occupato in Ticinese mantiene il suo fascino tra vecchie e nuove anime, la Libreria Calusca City Lights e l’Archivio Primo Moroni. Queste domeniche conchettare ci hanno dato la possibilità di approfondire la conoscenza di Domenico, i suoi formaggi, il suo lavoro. Quando abbiamo iniziato a lavorare a Eufemia, mercato agricolo de La Terra Trema è stato automatico invitarlo a partecipare. E così è stato. E così la nostra conoscenza è diventata amicizia. Siamo andati a trovarlo, a casa, sede della realtà agricola che porta avanti con Francesco, gli altri figli, Alessandro e Laura e poi Anna, la moglie.
Mia nonna era una agricoltora
A un certo punto della sua vita Domenico ha scelto la campagna, ha scelto di allevare capre e di fare il formaggio. A quarantatré anni, nell’anno 2003, dopo la fabbrica, dopo i camion e il lavoro da trasportatore, ha deciso di stabilirsi su mezzo ettaro di terreno ereditato dai nonni materni, nonni per una vita fittavoli. Coi suoi risparmi, quelli di venticinque anni di lavoro e milioni di chilometri consumati sulle strade di mezza Italia, compra un altro mezzo ettaro di terreno, costruisce una piccola stalla, una piccola casa, un piccolo caseificio e compra le prime dodici capre.
La nonna aveva lavorato lì fino alla fine dei suoi giorni. Se ne andò giovane, a cinquantasette anni e aveva una vacca e alcuni vitelli. La terra era di uno zio, emigrato negli Stati Uniti, che con trentamila lire riscattò la terra che avevano lavorato per anni e anni. La madre intestò a Domenico il pezzo ereditato e lui poi aggiunse a quello altre piccole quantità, lì, intorno a quella piccola proprietà.
La prima capra fu comprata a Monza, nel 1994, a una fiera. Fu un mezzo esperimento pieno di sbagli, ma per Domenico significò appassionarsi. Trovò nuove capre, prima in Valtellina e poi nei dintorni di Como, e per sei/sette anni alternò la cura delle capre al lavoro. La scelta, ne aveva consapevolezza, era difficile e a tratti folle, ma ostinato continuò e un certo punto disse basta, chiuse coi trasporti, coi capannoni, con l’alienazione e con la fabbrica. Solo le capre.
È domenica e ci accoglie
Pacato e gentile. La stalla è piccola. Pulita e in ordine ospita una cinquantina di capre, due becchi, un paio di manzette nate lì e altrettanti castrati. Ci sono poi, in fondo, due cavalli da tiro, una madre e il figlio, quest’ultimo con un bel carattere, si fa notare e ci richiama calciando forte sul legno quando non provvediamo a sfamarlo col fieno.
Siamo in alta pianura lombarda, a Mozzate, provincia di Como. In mezzora ci arrivi se parti da Milano. Se il cielo era nero di primo mattino, cupo e maligno adesso si apre su un sole che rinfranca moltissimo, ci fermiamo e lui ci scalda le spalle. Siamo a sud di Varese e di Como, un cluster infinito di paesi che finiscono in ate (Gallarate, Tradate, Malnate, Olgiate…). Un territorio che è emblema reale, palpabile, del boom economico, quando tra gli anni ’50 e ’60 si passò, in una manciata di anni e molti sacchi di cemento, «dal villaggio contadino all’età industriale e all’età postindustriale, cambiando tutto quanto in un modo sregolato, privo di logica e di bellezza, di sacro e di poesia».
La storia di questo territorio l’ha raccontata bene “La gamba del Felice”, un libro di Sergio Bianchi con la prefazione di Nanni Balestrini edito da Sellerio. Sergio Bianchi è nato e cresciuto in queste zone, a Tradate, e il suo libro, a cui a tutt’oggi siamo ancora molto affezionati, lo presentammo insieme a lui al Circolo dei Contadini di Abbiategrasso nei primi anni del decennio scorso. Altri tempi.
“Guardo i due per terra che non si muovono guardo i poliziotti che vengono avanti guardo sopra di loro il cielo grigio di Milano e mi viene in mente che è uguale al cielo del mio paese. Allora mi incazzo.”
L’eco del mondo qui arriva lontana, dalla strada, la Pedemontana, che scorre noiosa, sottoutilizzata, con tutta l’ignoranza del pensiero leghista che l’ha partorita, dividendo in due un prato dedicato alle vacche e al seminativo, rendendone praticamente inaccessibile un pezzo. L’eco del mondo la senti nello scoccare di colpi da un tiro a segno, distante una decina di chilometri. Pem, pem, pem, la domenica fa così, la domenica di hobbisti cecchini.
Dalla civiltà contadina all’età industriale, da quella postindustriale al tuffo a chiodo nel pieno della società digitale. Domenico con la sua scelta ha deciso di tenere la posizione, fare il formaggio è per lui un pretesto, utile a sottrarsi il più possibile ai contesti obbliganti e consumistici di questo mondo. Campare dignitosamente facendo quello che piace. Semplicemente: continuare a vivere dove è nato e dove sono nati e vissuti i suoi genitori. In campagna.
Negli anni ’80, trentenne, aveva letto su un libro di biodinamica (L’Azienda Agricola Biodinamica) che con una capra poteva viverci una famiglia, che tra tutti, era l’animale più economico. Da lì, dalla lettura di quelle pagine, prese piede la sua idea di allevarle.
Oggi Domenico è quello che ci mostra, senza salamalecchi o cerimonie affettate: alleva una settantina di capre (cinquanta in lattazione, una ventina per la rimonta e due becchi), qualche vacca da carne per uso familiare e un poco da vendere, tre maiali all’anno per farci i salami per sé e per gli amici, una trentina di galline, due cavalli da tiro con cui ara il proprio orto; verdure, pomodori per fare la salsa, mais da polenta, segale. Poche quantità, ma è quello che serve e basta per chi passa in azienda e soprattutto per il sostentamento dei suoi cari.
Intorno a questi pochi prodotti Domenico si concentra con pensiero ecologico e politico. La filiera infatti è ulteriore aprirsi su nodi cruciali: mais e segale, scopriremo, li fa macinare giusto ad Abbiategrasso in un mulino storico, alimentato ad acqua, nella vallata del Ticino. Il mulino Bava, una perla rarissima, uno scrigno d’umanità perdute, altro luogo, altra dimensione, altro tempo.
Prima i fatti poi le idee
Domenico e suo figlio Francesco fanno e ci ricamano su poco, nulla. Ad esempio, sono grandi esperti per quel che concerne la lavorazione del terreno coi cavalli. Lo fanno, con naturalezza, con passione (e con tanta fatica!), ma lo raccontano poco, se non passi da lì e lo vedi, non te lo dicono. Poi, però, se cominci a far domande la passione, il sapere pratico, l’entusiasmo vengon fuori, gli occhi brillano. Non è una forma di promozione aziendale, non è la messa in scena bucolica del contadino, non ci sono video o foto su siti o su social. È una pratica, una forma di vita. È una rivoluzione, alla Carlo Pisacane.
Francesco, sollecitato, mostra l’avantreno che ha costruito con le sue mani, seguendo le indicazioni di Domenico e mettendo a frutto le competenze acquisite nel lavoro in fabbrica.
L’avantreno si collega ai cavalli e all’attrezzo da lavoro che serve, sia esso l’erpice, la seminatrice o il voltafieno. Sparsi per la cascina giacciono vecchi aratri anch’essi utilizzati coi cavalli e condotti a mano. Domenico ce ne mostra uno bellissimo, recuperato da un vecchio del paese. Datato fine ‘800, fabbricato da un’antica ditta americana dell’Indiana che nel 1922 smise la produzione di mezzi agricoli di quel tipo. “Funziona ancora bene”.
La provincia dell’Alta Lombardia ecco che ci proietta inaspettatamente nel vecchio e profondo West.
Domenico però è più indiano pellerossa che cowboy: il primo insediamento di socialità su quei terreni fu una capanna, costruita a fine anni ’80, a volerla Beppe Vergine un grande amico per Domenico, un punto di riferimento per gli affetti e le azioni. Una casina piccola e bassa di fango, cemento e paglia. Con un forno per cucinare e un grande camino per scaldare. Un’opera architettonica ecologica, luogo di resistenza e socialità, di sottrazione, controcultura, incontro, festa, amicizia. Il centro era il fuoco intorno al quale si apriva il cerchio, avvolgente, coinvolgente, vorticoso, il nocciolo della mela di Avalon. Gli amici del paese e dei paesi vicini, i “non omologati”, quelli in conflitto con tutto e con tutti, quelli che sognavano un futuro diverso da fabbrica, villetta e precetti famigliari si trovavano lì, insieme intorno al fuoco, in mezzo al bosco e alla campagna. Spiriti di quel territorio e solo di quello.
Ed è ancora così. Abbiamo il favore di partecipare a questo piccolo rito sociale. Immanifesto, nascosto, ignaro.
Si accende il fuoco nel camino, si accende il fuoco fuori per metterci il paiolo di rame per fare la polenta col grano coltivato lì a fianco, si scalda il caprettone cucinato il giorno prima, si taglia il formaggio e si aprono bottiglie, e piano piano un’umanità rara si palesa e la attraversa, ossequiosa, partecipe, affaccendata: prima Dario, un elfo sotto mentite spoglie di professore di Storia dell’Arte alle scuole medie, poi Valentina, Niccolò, Arianna, Alfredo, Francesco. Un brulicare di voci allegre, di suoni di clarinetto, corde di chitarra, canti, chansonnier, risa, piatti che si riempiono, poesia.
«Non vi ha ancora fatto vedere la stalletta»
Dice Dario, con suono argentino. È il luogo da cui tutto è partito, la prima microscopica costruzione lì eretta. Oggi ospita una coppia di maialini. Quando la costruirono con i sassi, il nonno di Anna, Domenico e Dario, inserirono una lapide in pietra che indicava una data fittizia, il 1840, per dare un’aura di antico e di storico.
Dopo la stalletta venne il resto, fin al piccolo caseificio. Domenico là fa il suo formaggio delizioso. Le capre (camosciate delle alpi) stanno in stalla, a stabulazione fissa, tre mesi di asciutta, mangiano in parte il fieno prodotto in azienda dai prati stabili, in parte fieno che arriva dalle vicine aziende agricole e per il resto mangimi biologici.
Latte crudo per formaggi con una forte identità. Caciotte, capreggio, caprini, ricotte e una sorta di stracchino di capra. I formaggi di capra ormai sono “di moda”, un investimento per imprese startup innovative, ma quasi tutti uguali quelli che si trovano nei supermercati della grande distribuzione bio, sostenibile e pronta a sostenere progetti sociali, nessuna emozione, piatti, precisi, da manuale, magari con la certificazione.
I formaggi di Domenico si distinguono, portano emozioni, raccontano una storia, aiutano il mondo senza finanziare progetti e promuovere bandi.
Da Domenico dimentichi di trovarti in uno dei territori più martoriati da asfalto, cemento, fabbrichette, supermercati e logistica, le ferite ci sono e sono molto vicine. La Lombardia è il territorio in vetta a tutte le classifiche per consumo di suolo. Il rapporto 2021 dell’Ispra, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ci dice che in Italia perdiamo 15 ettari di suolo al giorno e che la Lombardia ha cementificato solo nel 2021 ben 750 ettari. Basta alzare lo sguardo oltre la tavolata gioiosa, al di là dell’orto e delle mucche al pascolo, tra gli alberi, e la vedi, la Pedemontana. Una devastazione inutile, dispendiosa, scellerata. Domenico ha toccato con mano questo dispositivo malefico che gli ha espropriato e diviso parte delle sue terre.
Guardiamo l’orizzonte con rabbia. Pensiamo alle battaglie che ci toccano per impedire la devastazione a sud di Milano, per impedire la realizzazione della tangenziale che dovrebbe attraversare il Parco del Ticino e il Parco Agricolo Sud Milano, al mega progetto per l’ennesimo centro commerciale, per l’ennesima sfilza di case e parcheggi, una tragedia grande come 65 campi da calcio sul Parco Giardino dell’Annunziata ad Abbiategrasso, capiamo quanto siano importanti queste battaglie e questa guerra contro il consumo di suolo e contro le devastazioni ambientali apportate da infrastrutture obsolete e tossiche imposte dall’alto. Ci interroghiamo se saremo all’altezza, ma siamo consapevoli che è questa la sfida epocale.
Sa poeu nò turna indrè.
Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 23
16 pagine | 24x34cm | Carta Nautilus Classic gr 100 | 2 colori
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Last modified: 2 Mar 2023