MAR DI PIETRA
Testo e fotografie di Antonio Secondo
Popolare le aree interne dell’Appennino Centrale dopo il terremoto, equivale a scegliere di adeguare la propria vita a misure difformi, significa predisporre una reazione su territori maltrattati e malpensati, sbattere con istituzioni e servizi negati, infranti, sfibrati.
Il dibattito sulle Aree Interne di questo Paese verte quasi esclusivamente sul come, mai sul perché. L’intuizione mi fulmina sulla via di Damasco dell’Appennino abruzzese, la Statale ricalcata sul fu Tratturo Magno, che dalla città di L’Aquila conduceva gli armenti verso Foggia attraverso il cuore montano della regione. Il rettilineo d’asfalto taglia in due un fondovalle di campi arati illuminati dal sole di una giornata di fine estate. Disposte lungo il percorso, chiese romaniche a distanza calcolata in giorni di cammino, tutte con porticato esterno per dare riparo ai carovanieri transumanti nelle notti di pioggia. Sulle colline, i ruderi delle torri di guardia a protezione dei burgus, villaggi fortificati di impianto medievale divenuti paesi con il declino dell’incastellamento, oggi silenziosi avamposti sui quali ormai da dodici anni si stagliano le gru della ricostruzione post sisma. Vederli scorrere dal finestrino dell’auto in corsa è come assistere a un lungo piano sequenza degno di un film di Tarkovskij.
Savino ha già addentato il primo dei panini che si è portato dietro, nessuno dei due sembra fare molto caso a un paesaggio che farebbe strabuzzare gli occhi di chiunque lo veda per la prima volta, ma a noi appartiene da sempre. L’idea è quella di raggiungere Arquata del Tronto circumnavigando il Gran Sasso, attraversando Castel del Monte fino a Campo Imperatore, poi giù verso Farindola, attraverso le faggete orientali del macigno, per arrivare a Castelli nel primo pomeriggio per salutare un amico, prima di proseguire verso le Marche. Un percorso senza senso per chiunque altro, ma questo non è uno di quei viaggi. Dopo una primavera passata in casa, ciò che ci interessa è solo tornare a respirare, bighellonare, ritornare a sentirci parte di qualcosa. Naufragare dolcemente in questo mare di pietra.
Ci fermiamo a osservare il paesaggio di paesi diruti che circondano la zona di San Pio delle Camere. Pietre accumulate in secoli di storia, mescolate dalla furia del sisma che nel 2009 trasformò tutta quest’area in un immenso cratere. Ma è a un cratere ancora più vasto che siamo diretti, quello del centro Italia, inaugurato dalla scossa del terremoto di Amatrice nell’agosto del 2016. Un tour delle macerie attraverso il cuore inquieto dell’Appennino. Eventi in grado di rappresentare uno spartiacque per chi li abita, noi compresi, dove il terremoto costituisce un anno zero nelle progettualità politiche e sociali nate prima e dopo di esso. Basta guardare i paesi più colpiti, con le facciate rasate di fresco appena uscite dal restauro degli aggregati terminati che stridono contro quelle sventrate dei quartieri ancora non maneggiati. Con le zone rosse recintate nella parte alta dei paesi e i moduli abitativi provvisori a valle. Davanti a tutto questo, per la prima volta, mi viene da chiedermi il perché, nonostante tutto, le persone si ostinino ad abitare questi luoghi. Cosa maturi, in modo consapevole o meno, nel cuore delle genti appenniniche per innamorarle di una terra tanto ostile, dove il terremoto non rappresenta che una delle innumerevoli calamità che vanno a sommarsi alle altre problematiche da sempre esistenti: spopolamento, mancanza di servizi essenziali, frane, isolamento, precarietà lavorativa. Perché tanta irragionevole determinazione nel restare, perché altrettanta insostenibile pressione nel provare a superare queste difficoltà?
Non come, ma perché, soprattutto da parte di chi sceglie di dedicarsi a questa parte d’Italia pur non avendo qui le sue radici. Decido di porre il quesito alle persone che incontreremo nei prossimi giorni, conscio del fatto che non esista una risposta universale, ma curioso di raccoglierne una corale. Savino dice che è una domanda stupida. Non esiste risposta, nessuna misteriosa epifania nascosta dietro quel perché. Esiste l’Appennino in quanto tale, e le genti che lo abitano. Nient’altro. Le rispettive diversità caratteriali sono uno dei tasselli sui quali abbiamo costruito la nostra amicizia.
Approdiamo a Castelli nel primo pomeriggio. Nel bosco che circonda la sua casa, Fabrizio ospita da più di tre settimane circa cento persone in un libero accampamento. Lo incontriamo qualche ora dopo, ci abbraccia stanco con il suo inguaribile sorriso annunciandoci che la festa è finita e la carovana si è spostata altrove. Ha scelto la vita nel bosco non senza difficoltà. La sua presenza disturba cacciatori e altri prepotenti soggetti del luogo. A cena nel suo piccolo quanto accogliente rifugio, porgo a lui per primo la mia fatidica domanda
“Ciò che mi rende felice” – risponde – “è tutto in questo bosco”.
Il mattino seguente ci rimettiamo in marcia. La ragione per dirigerci ad Arquata è quella del Cammino dei Briganti, tappa di un trekking nazionale più esteso pensato per attraversare una porzione dei circa settecento chilometri di gasdotto che la multinazionale SNAM Rete Gas vorrebbe far passare lungo la dorsale appenninica, interessando matematicamente gli epicentri degli ultimi terremoti nel centro Italia. Arquata non è direttamente coinvolta nel progetto, ma alcune sigle hanno voluto solidarizzare con la lotta contro il metanodotto adottando un pezzo del percorso che nei prossimi giorni raggiungerà Sulmona, in Abruzzo. E noi, da sulmonesi, ci siamo sentiti in dovere di partecipare. L’iniziativa è anche funzionale a riaccendere i riflettori sulle condizioni di paesi e frazioni terremotate a ridosso dell’anniversario del sisma. Norcia, Arquata del Tronto, Offida, Paganica, Sulmona, Montecilfone: l’Appennino è un arcipelago di isole selvagge, di pirati in rotta per Tortuga. Ad accoglierci nel territorio piceno è una piratessa d’eccezione, o meglio, un brigantessa: Verusca delle BSA, gruppo volontario d’intervento che nelle frazioni di Arquata, subito dopo il sisma del 2016, ha avviato progetti di rigenerazione sociale e rurale coinvolgendo le popolazioni. Ci scorta accompagnata da un simpatico locale: Francesco Eleutieri, interprete e autore dello spettacolo teatrale “Il terremoto di Mario” incentrato su Mario Alessandri, burbero gestore dell’Agrimusicismo Cantantonella di Astorara, frazione di Montegallo, nell’arquatano. È da lui che facciamo tappa per il pranzo, seduti a un tavolino di legno con vista sulle macerie di Casa Luce. Tra brocche di vino, pasta asciutta e un pane casereccio degno di Dop, Francesco e Verusca ci ubriacano di storie, racconti ora tristi ora assolutamente divertenti, tutti dal fronte del sisma. Tra i discorsi ricorre la domanda fatidica, che entrambi provano ad argomentare, specie Francesco, che si inerpica in una difficile digressione sulle scelte di vita che da Roma, dove viveva, lo hanno spinto a tornare qui, tra le macerie.
“La vita è strana” – conclude con lo sguardo commosso.
“Soprattutto sull’Appennino” – gli faccio eco io, sciogliendo le sue lacrime in una risata che preannuncia il prossimo brindisi.
Il pranzo dura più del previsto. Con Savino abbiamo fame di luoghi. Lasciamo i nostri amici al tavolo, impegnati in una discussione sulla politica locale e ci dirigiamo verso le case distrutte della frazione poco distante.
“Troppe ne vedrete di macerie in questi giorni” – ci saluta crudelmente Francesco.
Il piccolo agglomerato di Colle Luce è sospeso su un dirupo che ne taglia di netto il profilo. Una delle case ha perso l’intero piano superiore. Il pavimento in maioliche è ora un palcoscenico aperto sulla vallata dei monti Sibillini, dove il vento non cessa mai di soffiare. Non c’è nulla qui che non avessimo già visto dalle nostre parti. Un terremoto speculare, del tutto simile, quasi parodistico. Non ho ancora la risposta alla mia domanda. Sul muro di un vecchio lavatoio c’è una scritta a pennarello: “Colle Luce non è morto. Colle Luce risorgerà!”
La cena sembra un dèjà-vu. Seduti a un tavolo di legno, Verusca e Francesco discorrono ancora, quasi non abbiano mai smesso dalla tarda mattinata. In tavola, adesso, c’è un tagliere di polenta assortita sulla quale ci fiondiamo a testa bassa, esausti dopo una visita oltre il Vettore, sulla piana di Castelluccio di Norcia. Il locale è cambiato, ed è ora il rifugio Mezzi Litri, alle pendici arquatane della montagna. La nostra base per la notte. Un posto intimo, meditativo come un buon vino, nascosto ai grandi flussi che affollano la piana dall’altra parte del massiccio nel periodo di fioritura della lenticchia. La storia dei due gestori l’avevo scoperta anni prima dalle immagini e dalle parole di chi li aveva incontrati: un amico documentarista, un fotografo, un articolo su Lo Stato delle Cose. E, naturalmente, dai racconti delle BSA. Stefano ed Elena si sono conosciuti con il terremoto. La loro storia è diventata una sorta di emblema di ciò che significa vivere tra le onde fossili degli Appennini. Se chiedi a chiunque li conosca davvero di ricostruire la loro epopea troverai sguardi bassi e mani che agitano al cielo a indicare che ne hanno passate tante, ma nessuno è davvero in grado, o con abbastanza pazienza, per narrartela tutta. Puoi fartene un’idea dai loro sguardi stanchi, dai sorrisi di piena gratitudine che dispensano verso chi è accorso per aiutarli in cucina, a rassettare le camere del rifugio, a suonare una vecchia canzone sotto il portico della struttura. Nello sguardo di Elena la stanchezza è più dolce. In quella di Stefano, più rude ed estenuata. Vorrei interccettarlo per presentarmi, scambiare due chiacchiere, ma il lavoro non gli dà tregua. Lo richiamano puntualmente in cucina quando qualcosa non funziona. Per cuocere gli arrosticini sottovento facendosi scudo con il coperchio di latta. Per accendere i generatori supplementari necessari a ricaricare i cellulari dei trekker a riposo. Per ricaricare manualmente i serbatoi d’acqua delle docce e dei lavandini. Da piccolo paradiso, il rifugio si trasforma in un girone dantesco dove le punizioni sono rappresentate da una manutenzione costante. Il castigo di un uomo onesto. Ma, allora, perché restare? Vorrei chiederglielo, ma si è fatto tardi. Domani la levata è all’alba per il cammino che ci aspetta. Nella radura, con la notte è arrivato il vento. Soffia costantemente da questo lato del Vettore, scendendo dalla cresta che sovrasta il panorama attorno a noi. Il suo sibilo scuote le pareti della tenda portando voci lontane. Lo scampanio di un gregge perso da qualche parte nel buio lo accompagna conciliandomi il sonno.
Il mattino seguente, all’appuntamento che dà il via al Cammino c’è parecchia gente. Sportivi, comitati di sfollati, anziani signori, comunisti incalliti e nostalgici, boyscout con l’immancabile chitarra, membri del collettivo Emidio di Treviri e dell’associazione Arquata Potest, fotografe, scrittori camminatori come Mathias Canapini, anarchici e anarchiche: uno Stato-Nazione di terremotati e solidali riunitisi per gli Stati Generali dell’Appennino. A metà strada perdo l’orientamento e chiedo a Verusca in quale direzione sia Arquata del Tronto. Inarca il labbro da un lato, accennando un sorriso.
“Era lì, su quel colle” – mi dice indicando una piccola cima brulla e deserta, sulla quale non è rimasto nulla.
Dopo il terremoto, Arquata ha perso circa 900 abitanti. Quelli rimasti, perlopiù anziani, vivono oggi a valle, nei moduli provvisori. Un ecosistema, quello delle aree interne dell’Appennino, senza ragione di essere. Un dispendio di risorse economiche per chi governa, che sceglie puntualmente di tagliare servizi in relazione al numero sempre minore di abitanti, innescando in questo modo un circolo vizioso orientato allo spopolamento totale. Spostamenti di appena 12 km in linea d’aria si trasformano in 40 minuti di strade tortuose e dissestate. Mancanza di spazi agibili, fruibili dalla collettività, penuria di servizi essenziali che non sono neanche più rappresentati da un ospedale o un ufficio postale, ma da un approvvigionamento idrico o elettrico. Con l’aggravante di condizioni climatiche estreme rispetto ai territori più a valle o costieri. Verusca mi chiama da lontano. Il gruppo ha proseguito e sono rimasto indietro.
La sera, il rifugio dei Mezzi Litri è popolato dai camminatori esausti. Sotto il porticato la cena è festosa e conviviale. Stefano, invece, continua a trasportare le taniche piene d’acqua per riempire i serbatoi in previsione delle docce del giorno dopo. Dalla mattina avrà svolto questa mansione almeno una ventina di volte, come un Sisifo silenzioso. Siedo in disparte a prendere appunti ma, vedendomi solo, alcuni amici si avvicinano per fare due chiacchiere. Condivido con loro l’eterna domanda e iniziano ad arrivare le prime risposte interessanti. C’è chi, come Verusca, sostiene che nello stile di vita appenninico prevalga un desiderio romantico. Chi, come Mathias, crede che molti dei suoi abitanti siano anche legati a questi luoghi da semplici interessi personali, immobiliari, speculativi o lavorativi. Davide dice che la chiave è scritta nella sociologia stessa delle popolazioni indigene, poco inclini alla vita in comunità più densamente popolate. Fabrizio riscopre ogni giorno nell’isolamento e nella natura di questi luoghi la sua perfetta armonia con l’esistente. Mario, ex sindaco di Montegallo, è disposto a rinunciare ad altro per vivere in maniera più semplice. Durante il primo lockdown della primavera scorsa, mi aveva spiegato a cena, era solito uscire regolarmente per vedersi con un amico.
“Tanto in paese eravamo solo io e lui”
Inizio anch’io a intravedere le mie risposte. Credo che, al netto di tutto, qui più di altrove sia possibile assaporare il respiro di una libertà negata in contesti più antropizzati, dove la stessa presenza umana impone un maggiore adeguamento alle regole del vivere collettivo. Alla libertà, però, è impossibile non affiancare anche lo spopolamento quale elemento culturale di queste terre. Negare l’emigrazione di questi territori significa non voler fare i conti con essi. E se oggi facciamo un gran parlare di chi è tornato ed è rimasto è perché nell’abbandono di questi luoghi intravediamo un’allettante alternativa alle nostre quotidianità iperconnesse, globalizzate, normalizzate, confortevoli. Per molti, però, l’incanto si esaurisce crudelmente il primo inverno. Se ci siamo innamorati di questi luoghi anche per via del loro spopolamento, la risposta certo non può essere affollarli. A un tratto Stefano fa la sua comparsa al tavolo. Lo ascolto discorrere con Verusca sui problemi del rifugio e mi imbarco nella storia struggente delle sue spensierate domeniche in moto tra le montagne locali, prima che il terremoto prendesse il sopravvento su tutto. A un tratto, del tutto inaspettatamente, è lui a pormi la domanda che vado questuando a chiunque negli ultimi giorni. E le mie risposte si frantumano in un attimo insieme alle mie piccole certezze, distrutte da un terremoto che mi scuote dentro.
All’alba, il rifugio dei Mezzi Litri si trasforma nel posto più bello del mondo. A colazione, una poesia di Sandro Penna mi colpisce:
Ma come il vento muove il mare, muovono
anche, gridando, gli uomini e le barche.
Sorge sull’ultimo sudore il sole.
Stefano mi dà il buongiorno uscendo dal rifugio. Siede al sole su una soglia di pietra capovolta con lo sguardo a terra. È l’alba ed è già stanco. Il suo profilo ellenico da moderno Ulisse in balìa della tempesta è perfettamente ritto, mentre la prospettiva attorno a lui si contorce quasi collassando. Sulla spalla, uno straccio che gli grava pesantemente addosso. In alto, incorniciata nella finestra, l’imponente cima del Vettore, custode di misteri sibillini, fautore del bello e del cattivo tempo per le genti di queste montagne. Riesco a rubare uno scatto, solo pochi secondi prima che qualcuno lo richiami dalle cucine. Per il ritorno a casa scegliamo di seguire il percorso parallelo a quello di andata, dall’altro lato del monte, da Valle Castellana fino a Pizzoli, nell’Abruzzo aquilano. Chilometri di niente, di contrade sventrate dove persino le scritte sui cartelli sono disallineate a indicare il dissesto. Anche qui, terremotati dentro. L’area di Valle Castellana è uno dei territori più estesi del teramano: 130 km quadri che ospitano una quarantina di frazioni isolate, per un totale di meno di mille abitanti. Una densità di circa 7 km quadri a persona. Orografie ostili, abbrutite da secoli bui. Nella frazione di Macchia da Borea, in passato, i morti d’inverno venivano messi sui tetti, conservati sotto la neve fino alla primavera successiva, quando finalmente era possibile scavare per inumarli. Rallento per schivare una transenna che blocca l’ingresso di una strada chiusa per frana.
“Come cazzo fanno le persone a vivere qui?”, mi chiede Savino guardando attorno il nulla che ci circonda.
Io sorrido, tenendo gli occhi sulla strada.
Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 21
16 pagine | 24x34cm | Carta Nautilus Classic gr 100 | 2 colori
Last modified: 26 Gen 2022