La bassa bergamasca sembra tracciare i contorni di una mappa vischiosa, di uno sversamento indistinto da decifrare a partire dalla declinazione di vecchi e nuovi idioletti lombardi: campagna, logistica, asfalto, identità, imprenditoria, salubrità, politica.
Testo di Wolf Bukowski
Fotografie di Agripiccola – Azienda Agricola Noemi Sacchi
Un campo coltivato o un grigio magazzino? Il riprodursi della vita vegetale o il rincorrersi dei tir lungo autostrade? Insomma: l’agricoltura o la logistica? Se la scelta si presentasse in questi termini non sarebbe difficile decidere. Ma lo spazio concreto e concettuale tra queste due attività si affolla, si confonde, s’impantana; e discriminare diventa più difficile, ma anche più necessario. Nelle righe che seguono proverò a tracciare una mappa provvisoria di tale pantano, seguendo alcune meditazioni laterali che mi hanno accompagnato durante la stesura del reportage Le aziende della logistica stanno divorando la bassa bergamasca pubblicato da Internazionale nel febbraio 2021.
Dopo l’apertura al traffico di BreBeMi, nel 2014, la Bassa bergamasca è stata aggredita da insediamenti di aziende di movimentazione e stoccaggio delle merci: l’infrastruttura era bell’e fatta, i terreni c’erano, i comuni stendevano tappeti rossi… Quello della pianura era un terreno reso fertile dalle risorgive, dove «l’acqua che viene dalle montagne riemerge dal terreno», e dal «lavoro umano plurisecolare» che l’aveva raccolta in canali. Così me lo aveva descritto Francesco Macario, architetto e segretario provinciale di Rifondazione Comunista, evocando i miti umidi di queste terre, come quello del lago abitato dal drago Tarantasio, che è poi il biscione dello stemma dei Visconti e di Canale 5. Ma, aggiungeva Macario, quell’equilibrio era minacciato da cemento e infrastrutture, che mettono in pericolo «una delle aree agricole più produttive in Europa».
Nel corso degli ultimi anni Legambiente aveva tenuto la contabilità degli insediamenti logistici: «18 approvati fino al 2018, 8 nel 2019, almeno altri 5 in via di approvazione» elencava Paolo Falbo del Circolo Serio e Oglio a fine ottobre 2020, ma nel gennaio successivo mi aveva scritto per dirmi di aggiungerne uno nel comune di Calcio, autorizzato e rapidamente esonerato dalla Valutazione di Impatto Ambientale. Quella a cui davano voce Falbo e Macario era una decisa contrarietà all’assalto della logistica. Ma più approfondivo il tema più mi rendevo conto che, a parte queste schiette opposizioni, si distendeva il pantano. Il pantano come luogo prediletto della politica politicante, dove si intorpidisce ciò che è chiaro e si smarrisce il senso delle parole.
Cibo e leisure periurbano
Nel 2017, su incarico della Provincia a guida Pd, era stata pubblicata la ricerca Bergamo smart land. A elaborare il testo era stata Aaster, agenzia di ricerca milanese diretta da Aldo Bonomi. Il sociologo Bonomi è uso coniare apparati interpretativi della forte presa comunicativa, adatti per un auditorio genericamente di “sinistra” e dotati di quella punta di piccante che, suonando quasi come critica, mette in moto i succhi gastrici e rende ancor più facile la digestione del moderatismo Pd. Per la provincia orobica Aaster prevedeva una situazione in cui «insediamenti industriali e logistici multinazionali collegati ai corridoi infrastrutturali» sarebbero stati compresenti a «economie fondate sull’attrattività di valori paesaggistici, ambientali, culturali collocati nelle pieghe dell’urbanizzazione diffusa», e segnalava altresì la necessità di esercitare «una forte capacità di governance d’area vasta per connettere in modo sostenibile i differenti drivers di sviluppo ed evitare che la compresenza si trasformi in contraddizione»[1]. La lezione che presumibilmente ne avrebbero tratto i politici era che la penetrazione logistica era ineluttabile, e la sfida era nel connetterla in modo sostenibile grazie alla governance d’area vasta. Lezione retoricamente utile, da ripetere ai giornali locali per insaporire interviste insipide, ma impossibile da applicare: lo sviluppo abnorme della logistica è di per sé globalmente insostenibile, e quindi non poteva essere localmente ricondotto a sostenibilità; la governance è prassi inane (altrimenti si chiamerebbe politica, non governance), e in ogni caso non era praticabile su un’area vasta, visto che lo strumento principale a tale scopo era quell’ente Provincia masticato, ridotto a bolo informe e risputacchiato dalla riforma Renzi-Delrio del 2014.
Ma un ulteriore diavoletto si nascondeva tra le pagine di Bergamo Smart Land: l’agricoltura, e soprattutto quella assai mediatizzata dei «giovani […] “ritornanti” sui luoghi ai margini dello sviluppo», veniva assunta sotto le specie di «un tipo di agricoltura fondata su produzioni tipiche, di qualità, ambientalmente sostenibili»; una «sorta di comparto agro-terziario» che era assai facile, per il lettore della ricerca, sovrapporre al contiguo «turismo dei percorsi e del leisure periurbano»[2]. Il segno pareva dunque quello della coppia Tipicità&Turismo istituita e saldata in eterno da Expo 2015, vero momento fondante di una retorica agroalimentare che fintamente problematizza e concretamente lubrifica la messa a reddito integrale del territorio. Vedete emergere un poco alla volta la mappa del pantano?
Vi si riconosce il modo in cui la politica tiene insieme la tesi (l’agricoltura) e l’antitesi (la cementificazione logistica e infrastrutturale), pervenendo a una sintesi fangosa che è solamente retorica e non ostacola i processi devastanti in corso.
Nel 2018 la Provincia e alcuni comuni della Bassa avevano organizzato i convegni Pianura Futura. I concetti che abbiamo già incontrato venivano ripetuti e martellati, e a forza di ribattere emergeva una nuova chiarezza: a Pianura Futura si proponeva infatti una «riflessione sui temi dell’agricoltura intensiva industrializzata versus le produzioni tipiche ambientalmente sostenibili». Si rendeva così omaggio a una tendenza, da tempo riconoscibile, che faceva uso di giuste critiche all’agricoltura industrializzata non per invocarne la sostituzione con una più leggera, contadina, destinata a mercati locali, non monocolturale eccetera… ma con un puzzle di produzioni di nicchia. All’interno di un tale modello non era difficile prevedere come i conduttori delle singole tessere del puzzle, oltre a interpretare un ruolo deteriore, si sarebbero trovati ad avere un peso politico nullo e a essere del tutto dipendenti dagli investimenti promozionali e turistici delle amministrazioni, e quindi fortemente incentivati a indossare sorriso e camicia a quadri malstirata per operazioni di marketing territoriale e consenso politico. Ciò meditato e detto, però, pancia mia fatti capanna: «la mattinata» di Pianura Futura, leggiamo infatti, si era conclusa «con un ricco buffet a base di prodotti tipici».
Avevo chiesto al presidente locale di Coldiretti, Alberto Brivio, un parere su questa svalutazione dell’agricoltura convenzionale che a mio avviso aveva lo scopo implicito di alleggerire mediaticamente le ferite inferte dalla cementificazione. Sapevo che l’organizzazione nel suo complesso non era estranea all’approccio mainstream sulle tipicità, ma confidavo nel fatto che una sezione Coldiretti così attenta al consumo di suolo, come quella bergamasca, avesse percepito l’odore di bruciato. Non sbagliavo: «Anche noi stiamo avendo la stessa impressione. Assistiamo a una strumentale “criminalizzazione” dell’agricoltura convenzionale, che non tiene conto del fatto che in Italia, diversamente dai modelli di agricoltura convenzionale del nord Europa ed extraeuropei, con questa accezione, si rappresenta in realtà uno dei più importanti serbatoi di biodiversità vegetale e animale del continente europeo».
Si può essere d’accordo o meno sulla valutazione di Brivio dello stato dell’arte dell’agricoltura convenzionale italiana, ma la consapevolezza che esprime è un buon punto di partenza per ragionamenti condivisi.
Il deserto agricolo
Quella che nei convegni si presentava con le categorie fintoproblematiche della «riflessione sui temi dell’agricoltura intensiva versus…» poi, nella brutalità quotidiana del discorso precipitava in espressioni assai più crude. In occasione dell’annuncio dell’ennesimo impianto logistico, tutto declinato in chiave green, i progettisti definivano lo stato presente del terreno a esso destinato un «deserto agricolo, con pochi filari, poche rogge ormai rinsecchite e una scarsissima qualità paesaggistica». Tale descrizione diventava il viatico per incamminarsi verso l’assurdo, e cioè l’affermazione che il progetto logistico avrebbe portato «in dote un aumento della qualità ambientale».
Tra l’altro, va detto, l’abbandono agricolo di quel terreno tra Treviglio e Caravaggio potrebbe aver avuto a che fare, chissà?, col fatto che a partire dal piano urbanistico provinciale (Ptcp) del 2004 e fino al 2020 esso era stato stabilmente destinato a interporto logistico. Dopo l’eliminazione dell’interporto dal Ptcp (maggio 2020) il deserto agricolo era stato forse percorso da un brivido di vita, ma già in ottobre era riprecipitato, come detto, tra coloro che stan sospesi in attesa della betoniera. E questo proprio grazie a quel nuovo polo logistico green che lo avrebbe salvato dalla desertificazione…
La definizione di deserto agricolo mi ricordava anche il modo in cui Andrea Segrè (conosciuto come «guru» delle lotta agli sprechi alimentari) parlava di un campo di proprietà del Centro agroalimentare bolognese che presiedeva, campo su cui era prevista la costruzione di quartierino residenziale. Diceva Segrè: «qual è l’alternativa? Cosa avremmo fatto? Lasciavamo tutto lì incolto? Che è anche bello, voglio dire, naturalmente, dal punto di vista… però…»; al che l’intervistatore lo interrompeva per ricordargli che quel campo era in realtà coltivato a grano, e il professore ribatteva: «Certo, ma vogliamo fare quel tipo di agricoltura?». Quel tipo di agricoltura, cioè supponiamo convenzionale, senza tipicità da vantare e del tutto priva di leisure periurbano, fungeva probabilmente qui da sinonimo di deserto agricolo, e quindi da anestetico per non sentire il dolore delle infiltrazioni di cemento nelle giunture della terra.
La quarta gamma
Tutto questo, ne converrete, si svolgeva sul piano delle retoriche. Le retoriche sono come la malta: finché la coclea la gira e la rigira essa resta modellabile, ma quando fa presa non te ne liberi più. Le parole diventano cemento. Ma quel pantano tra logistica e agricoltura si nutriva anche di pratiche. Pratiche agricole innestate di logistica, e imprese logistiche che si radicavano in operazioni che, se pure in modo deprivato, avevano a che fare con l’agricoltura. Mi aveva messo la pulce nell’orecchio Claudio Sacchi, allevatore di piccola scala e dai metodi tradizionali a Telgate. Claudio mi diceva che quella che vedeva attorno a sé era in gran parte «agricoltura solo in un senso molto lato del termine: serre dietro serre, dove si coltiva in pochi centimetri di terra facendo uso smisurato di prodotti antiparassitari e fertilizzanti. Con lavoratori pagati poco e sfruttatissimi. E il danno non si limita a questo, perché le serre sono anch’esse una forma di impermeabilizzazione del terreno: quando piove l’acqua non penetra in profondità nel terreno ma corre via sulla plastica, e quindi si riversa nei fiumi, aumentandone la portata con tutti i rischi del caso».
In quella parte orientale della Bassa si concentra la produzione di verdure destinate alla quarta gamma, cioè imbustate e pronte al consumo, inizialmente propagandate per chi non ha tempo di lavare e tagliare l’insalata (ma sarà poi vero che non ha tempo o è più che altro una forma mentis?) e in seguito, come spesso accade, divenute unica scelta disponibile per alcune categorie di prodotto. Trovatemi in un supermarket anche di medie dimensioni una rucola che non sia di quarta gamma, per esempio.
Si rallegrava nel 2018 Lombardia Speciale, testata della Regione: «Ottime prospettive di un’ulteriore crescita per il distretto serricolo legato alle produzioni di verdure destinate alla IV gamma […]. Al 1.100.000 mq di serre che si trovano nel quadrilatero tra Calcio, Palosco, Martinengo e Romano di Lombardia […] si aggiungeranno, nel breve periodo, altri 170.000 mq di superfici coltivate». Si trattava degli stessi comuni su cui precipitavano gli scatoloni della logistica. Mi tornava così in mente la descrizione di un paesaggio addensato di capannoni e serre che mi aveva fatto Mimmo Perrotta, sociologo dell’Università di Bergamo, accennandomi alla ricerca che stava conducendo con Martina Lo Cascio proprio su quel distretto.
Avevo chiamato Mimmo e gli avevo chiesto di dirmi qualcosa di più sulla quarta gamma. «Si tratta di un tipo di agricoltura che non potrebbe esistere senza la logistica. Portare nel supermercato in buone condizioni un’insalatina già lavata presuppone l’esistenza di una rete logistica e informatica perfettamente scorrevole». Quello che mi descriveva era un just in time applicato a un settore, la produzione agricola, che per essere just in time doveva essere totalmente stravolto e diventare logistico: «Le centrali d’acquisto delle catene di supermercati emettono un ordine per la mattina dopo, le industrie di trasformazione che lavano e impacchettano si muovono sulla base di previsioni anticipando le richieste delle catene di 48 ore. Per rendere tutto questo possibile si muovono centinaia di Tir: da nord a sud e tra gli stabilimenti di trasformazione e i poli logistici delle catene di supermercati».
Ecco, con questo la mappa mi pare completa. Spero possa essere utile a chi non voglia smarrirsi nel pantano. O che serva, almeno, a non smarrirvi l’anima.
[1] Bergamo Smart Land: la rete dell’intelligenza territoriale, pag. 64-65 [2] ivi, p. 7, 66, 67, 64, 68-69. Laddove la ricerca indicava «lesiure periurbano» abbiamo corretto a senso in periurbano.da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 20
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Last modified: 16 Mag 2021