di Antonio Secondo, da Gotico Abruzzese
L’audio di questa lettura è stato registrato da Antonio Secondo il 12 Apile 2020.
Suoni e musiche sono di Vorinc:
“Siccome – ripeto – sono ambizioso,
volevo girar tutto il mondo e,
giunto nei siti più lontani,
voltarmi e dire alla presenza di tutti:
“Non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? Ebbene, io vengo da là”
Cesare Pavese – Racconti Vol. II, “La Langa”
Sono nato e cresciuto in una piccola contrada. Non è importante il suo nome. Di contrade come la mia l’Abruzzo è pieno e durante i tanti vagabondaggi per la stesura di articoli su questo blog, di tanto in tanto, mi è capitato di riconoscere in un pugno di case attraversate da una strada, un luogo che conoscevo da sempre, anche se lo vedevo per la prima volta. Uno di quelli con il cartello di benvenuto e quello di arrivederci a poche centinaia di metri l’uno dall’altro, tra giardini ben curati, piccoli orti con baracchette di legno e il motocoltivatore coperto da un telo di plastica. Di quelli con panche di pietra fuori dal portone, dove d’estate le signore siedono la sera a godersi il fresco. Uno di quelli silenziosi, anche quando nel resto del mondo imperversa il caos.
A casa ero dovuto rientrare già da metà febbraio per problemi di famiglia, iniziando una quarantena forzata molto prima che questa venisse estesa dal nord Italia in Abruzzo. Sarà per questo che la notizia del lock down la sera dell’8 marzo non ha sconvolto particolarmente la mia routine. Nei primi giorni, come tutti quelli che, come me, hanno la fortuna di poterselo permettere, sono tornato nel terreno dietro casa. Una pietraia ostile, buona solo per aglio e alberi da frutto dalla quale però, anche con un certo orgoglio, sono sempre riuscito a coltivare quel tanto che bastava da essere consumato in famiglia. Questo fino a quando non sono andato via da casa.
Il capanno degli attrezzi l’abbiamo costruito in due, io e il compagno di mia sorella, nei giorni del terremoto di Amatrice. Erano venuti a stare in casa perché lei aveva appena partorito, o era prossima a farlo, non ricordo, e avevano paura di restare nel loro appartamento in centro storico.
La baracca è tirata su con materiali di recupero, bancali e lamiere racimolati chissà dove, ma comunque a costo zero. Nel rientrarci stamane ho notato, in un cassetto, una piccola scatola contenente semi di fave, ceci e piselli e, benché sia piuttosto tardi, ho deciso di seminarli ugualmente, anche solo per sopperire alla noia. Sono giorni di sole. La primavera sembra ormai essere giunta senza aver quasi lasciato spazio ad un inverno che non è riuscito neanche a mettere il cappello alla montagna.
Mentre sono chino sul solco, noto il vecchio Arturo fissarmi al di là del recinto. Arturo ha il terreno subito dopo quello dei miei genitori, dove da sempre c’è un ciliegio, un albero di pesco e due filari di uva da tavola. Non si chiama davvero Arturo. Lo abbiamo ribattezzato così in famiglia perché non ricordiamo quale sia il suo vero nome.
Mio padre continua a dire che, sì, il vecchio Arturo si chiama proprio così e alla fine è stato bene a tutti. Io e i miei fratelli ci siamo sempre vergognati di chiedergli quale sia il suo vero nome, visto che scambiamo con lui battute sulla linea del recinto praticamente da quando siamo venuti ad abitare qui, trent’anni fa. Anche mio padre, a pensarci, non si è mai rivolto a lui con questo nome, perché in fondo anche lui sa che non è il suo, ma Arturo è meglio di niente.
“Gioventù, che semini?”, mi chiede e io so già dove vuole andare a parare.
“Fave”.
Lui ride e dice che ormai è tardi, che faccio prima ad andarle a comprare al supermercato e che, al tempo, ci penserà lui a portarmene una bella cassetta di quelle seminate in autunno. Io so che ha ragione lui, il vecchio Arturo, maestro di campagna, ma mi tocca stare zitto per creanza, ma anche per non impelagarmi in una discussione che non ho voglia di affrontare. Scrollo solo le spalle e dico “chissà, vedremo”, evitando di incrociare il suo sguardo.
Quando poi, pochi giorni dopo, arriva la neve, me ne sto alla finestra a guardare il campo.
“Povero Arturo” – penso – “maestro di campagna dai precetti secolari, oggi del tutto inutili dinnanzi alla ferocia del cambiamento climatico”. E in cuor mio vedo le mie fave tardive germinare sotto la neve e quelle di Arturo falcidiate dalle gelate in arrivo. Mi riprometto di tenere una cassetta per lui. Perché in campagna si fa così.
Oltre la linea del campo, le montagne sono scomparse sotto le nuvole basse. I paesi aggrappati alla roccia sono spariti, come i fiori del mandorlo della signora Elda nel giardino accanto al mio, sepolti dalla neve.
Quando, nei giorni seguenti, torna il sereno, la neve scompare a sua volta. La piccola casa abbandonata fuori dalla finestra della mia stanza sembra un dipinto fiammingo, o uno di quegli scorci ritratti dagli impressionisti danesi tra le terre d’Abruzzo. Dalla finestra sul versante opposto dell’abitazione, la visuale è completamente occupata dal massiccio che chiude la parte a est della valle, sulle cui cime imperversa ancora il maltempo.
Esco a camminare tagliando per i campi. Basta scavalcare la ferrovia che corre dietro casa, nella parte in cui la rete metallica è stata divelta, per ritrovarsi tra le colline che separano la mia contrada da quella vicina. Cammino costeggiando un canale irriguo, da lontano arriva l’eco di una motosega persa da qualche parte nella radura e si intravede la colonna di fumo del fuoco appiccato per bruciare le ramaglie. Da bambino questa strada sterrata sembrava interminabile sotto le ruote della mia bicicletta. Ora conosco lo sbocco di ogni cammino, il punto in cui la quercia dal tronco cavo ospita la tana dell’assiolo, quello migliore per trovare gli asparagi che quest’anno, nonostante sia stagione, non vogliono saperne di uscire, insospettiti più del vecchio Arturo dal clima lunatico e dai suoi capricci.
Tra gli sbanchi delle viti abbandonate e i ruderi delle cascine rivedo il bambino in bicicletta, che curioso fa il suo ingresso nel mondo. Lo chiamo ogni volta, quando torno da queste parti, ma ormai non risponde più.
Dalla strada mi arrampico su un greppo per cercare notizie della volpe che vive nella macchia della collina. La stessa che, anni fa, rubò le galline dalla baracca degli attrezzi nel terreno di famiglia. Ma anche le volpi hanno diritto a mangiare. La tana è vuota, e all’esterno non c’è traccia di lei. Forse non vive più lì.
Quante cose sono cambiate tra queste colline dall’ultima volta che le ho attraversate. Il campo di mais, a valle del sentiero sul quale i bracconieri scaricano gli avanzi degli ungulati macellati sul posto, è ora un campo di pietre, senza neanche la favetta a preservarlo dalla gramigna. Sulla collina manca l’erba alta nella quale da ragazzo andavo a perdermi per fuggire da me stesso. Senza cellulare e senza che nessuno sapesse dove fossi, per scomparire una mezz’ora guardando il cielo tra gli steli nel periodo in cui, crescendo, iniziai a odiare questa terra col piglio di andar per il mondo.
Il ronzio della motosega si spegne e, mentre riprendo la via di casa, nell’aria si avverte il sibilo di qualcosa che non riesco a identificare.
I giorni di quarantena hanno inasprito il divario tra le città e la provincia ma, forse per la prima volta da sempre, con moto inverso. La quotidiana desolazione della contrada assume oggi il valore di un privilegio per chi, come me, ha occasione di passeggiare tra i campi. L’isolamento diviene un valore aggiunto, funzionale al rispetto delle distanze sociali senza per questo peccare di umanità.
Per quanto ho capito io di questa situazione, la pandemia di Coronavirus è stata in primo luogo lo stravolgimento di paradigmi essenziali ai quali tutti eravamo abituati. Stravolgimenti non necessariamente correlati alla diffusione del virus, ma sicuramente accentuati da esso, come la schizofrenia di un clima impazzito, la frenesia del consumo, la fruibilità dell’abbandono, il valore del silenzio. Temi dibattuti da tempo, che oggi, però, riconsideriamo sotto una luce nuova, scivolando più in profondità.
Se ci si ferma ad osservare le contrade abruzzesi si ha l’impressione che il segreto della loro tenace resilienza risieda nel fatto che il mondo intero si sia dimenticato di loro. Un universo in controtendenza, senza valore, completamente al di fuori dei parametri della società che le ospita. Un errore di sistema.
Se i vecchi come Arturo, le tane di volpe, i mandorli della signora Elda, la ferrovia, le signore sedute sull’uscio e i motocoltivatori coperti dai teli di plastica valessero qualcosa questo mondo le avrebbe già fagocitate. Ma le contrade non valgono niente, e allora vengono lasciate in pace.
Sull’autostrada che si snoda a mezza costa sulla montagna, antistante la finestra della mia stanza, noto lo scorrere microscopico di una vettura. La intercetto con il telescopio che uso per scandagliare la giogaia e scopro trattarsi di un grosso camion bianco, che procede a velocità sostenuta sulla carreggiata deserta. Il mondo è così distante da qui, come un pianeta lontano.
Resto a guardare fino a quando il sole inizia a scendere oltre la cresta del monte e il canto dell’assiolo dalla sua tana nel bosco annuncia l’arrivo della sera.
ANTONIO SECONDO
Vivo a Sulmona (AQ), dove sono nato e dove da qualche anno ho deciso di tornare a vivere. Mi occupo di web content e redazione di articoli, saggi e sceneggiature. Dall’autunno del 2013 sono inoltre editor di Gotico Abruzzese, un progetto nato con l’intento di raccontare un Abruzzo onirico e fuori dall’ordinario.
Last modified: 8 Giu 2021