Qualche mese fa un noto sito web americano di notizie finanziarie e commerciali ci ha intervistato per un articolo che non è stato mai pubblicato. Vi proponiamo comunque l’intervista con le loro domande e le risposte de La Terra Trema.
Perché molti vignaioli biologici non prendono la certificazione ufficiale del bio?
Per molti vignaioli piccoli, che hanno iniziato da poco, che non hanno risorse economiche, la certificazione ha un costo non indifferente nell’economia dell’azienda. Altri, quelli più politicizzati, quelli con un’opinione fortemente critica nei confronti dei disciplinari e del sistema di mercato, non riconoscono questo tipo di attestazione come garanzia di qualità.
La critica che più spesso viene addotta nei confronti delle certificazioni (non solo quella bio) è un nodo che riguarda l’ente certificatore non tanto le pratiche in campo.
Per avere quel marchio paghi la stessa entità deputata al controllo degli standard disciplinari necessari per vederti assegnato quel marchio medesimo.
Inoltre, opinione comune è che il marchio biologico, come le certificazioni di origine come le DOC e DOCG, siano diventati un passe-partout utile all’agroindustria e alla grande distribuzione che ne hanno fatto solo una questione di mercato. Molti vignaioli che fanno una “produzione di fatto biologica, di qualità e di territorio” si rifiutano di cadere nel calderone, temono di essere confusi con questo enorme bluff, preferiscono addirittura rinunciare a questi marchi anche se magari son stati tra i primi ad avere un marchio bio, DOC o DOCG per i propri vini.
C’è lo stesso un mercato?
Sì. Negli ultimi quindici anni è stato fatto un enorme lavoro.
Un movimento di vignaioli, attivisti, appassionati e addetti ai lavori ha modificato il mercato del vino valorizzando le piccole produzioni artigianali e queste sono diventate fette di mercato sempre più ampie.
Sono tantissime le enoteche e i ristoranti che scelgono vini senza nessuna certificazione, con la consapevolezza che questo non tolga nulla al valore qualitativo di quelle bottiglie.
Lo sguardo si è spostato sul campo, il giudizio non si delega.
Sono molti i vignaioli che pur non avendo certificazione bio, senza DOC e DOCG hanno raggiunto riconoscimenti nel settore e nelle vendite, arrivando a competere con etichette anche più blasonate e con le certificazioni da manuale.
C’è anche da dire che il protocollo biologico prevede alcune norme che se, applicate alla lettera, sono plausibili solo per un’agricoltura intensamente produttiva. È un controsenso intrinseco non da poco.
Ci sono vignaioli che applicano altre tecniche più estreme? Quali sono? Che risultati ottengono? Come reagisce il pubblico? Perché lo fanno?
Sono tecniche che riguardano la coltivazione o la vinificazione?
Potreste fare qualche esempio preciso?
Oltre alla pratica biologica esiste la viticoltura biodinamica definita anche scienza parallela perché non è riconosciuta dall’università o riconosciuta solo in forma di ricerca (per la verità anche la viticoltura biologica subisce lo stesso trattamento negli ambiti accademici).
I vini biodinamici, in estrema sintesi, prevedono in campagna consociazioni, preparati specifici (a base di sostanze naturali come letame, corna bovine, quarzo, piante e fiori), dosi contenutissime di rame e zolfo, nessun prodotto di sintesi in vigna e in cantina e piccolissime (o zero) dosi di solforosa nella vinificazione.
C’è poi l’etichetta immateriale dei vini naturali-natural wine, vini fatti nel più assoluto rispetto dell’ambiente, con usi contenutissimi di zolfo e rame (talvolta perfino assenti), nessun utilizzo di prodotti di sintesi in vigna e nessuno uso di additivi in cantina (solo in certi casi qualcuno usa un po’ di solforosa).
È difficilissimo restituire una definizione esaustiva per i vini naturali, in primo luogo perché non esiste un disciplinare condiviso. Che sia un bene oppure no è una questione da scardinare. Negli ultimi anni cercare di definirlo ha prodotto confronti aspri tra vari gruppi; ha prodotto dibattito, alimentato polemiche. anche fratricide. accresciute soprattutto da questioni di mercato, perché è il mercato che spesso determina, soprattutto dove può avere occhio più lungo e spalle imbattibili.
Come già capitato per il marchio biologico anche per quello biodinamico e naturale l’agroindustria e i grandi marchi preparano gli scaffali, producendo o vendendo come tali i suoi vini.
I risultati qualitativi, come qualsiasi modalità produttiva, dipendono da chi li adotta.
Esistono vini definiti naturali biodinamici interessantissimi. Altri che lo sono molto meno o alcuni che sono addirittura pessimi.
Il pubblico, eccetto una piccola porzione che rimane diffidente per partito preso, da alcuni anni a questa parte reagisce molto bene a questi vini, li cerca, li conosce, li apprezza. È un pubblico che cresce.
I motivi che portano i vignaioli a queste scelte, che tu definisci estreme, possono essere diversi ma a voler fare estrema sintesi ce ne sono due: ci sono quelli pienamente convinti che sia l’unico modo possibile per produrre vino e per rispettare (e salvare) il pianeta, e ci sono quelli che vedono in questa scelta una fetta di mercato buona da cavalcare. Le due scelte alcune volte coincidono e altre volte divergono.
Noi conosciamo modalità di lavoro che definiamo estreme diverse: quelle fatte in contesti estremi per condizioni territoriali. Ci sono vignaioli che producono vino in Val di Susa in prossimità o all’interno della zona rossa determinata dai cantieri del TAV. Qui la produzione è estrema non solo perché è agricoltura di montagna su terrazzamenti impervi, difficili, ma perché è resa estrema dai check point delle forze dell’ordine ai luoghi e alle persone, dalle complicazioni al lavoro per i continui divieti, per gli incessanti controlli, per le pressioni politiche.
Ci sono vignaioli che lavorano sull’Etna, che lo fanno senza ricevere contributi, che lo fanno a tasche vuote senza denaro da investire, che lo fanno in contesti culturalmente e socialmente difficili, che combattono con fattori climatici e territoriali non facili. Avviene in Sicilia, in Puglia, in Campania, in Calabria, nella Locride.
Qual è il mercato del vino bio o bio non bio in questo momento in Italia (e all’estero)?
Il mercato del vino in Italia è in continua crescita e lo definiremmo in buona salute se la valutazione va fatta in termini di fatturato. Vale lo stesso per il mercato estero: il vino italiano è sempre più richiesto e venduto (dagli Stati Uniti al Giappone, dalla Svezia alla Cina, passando per la Gran Bretagna).
Bisogna vedere cosa comporterà tutto ciò per i territori da cui provengono questi vini.
La storia del settore non propone esempi proprio belli: vedi i territori del Prosecco, del Barolo, della Valpolicella dove la grande richieste, soprattutto del mercato estero, ha prodotto quella che chiamiamo urbanizzazione vitata e che ha portato in primo luogo a speculazione, appiattimento delle biodiversità a causa della monocoltura vite, a distorsioni ambientali.
Last modified: 29 Dic 2019