L’alt(r)o Piemonte
Testo di Laura M. Alemagna
fotografie di Laura M. Alemagna e Luca Lusiardi
Gigi Brozzoni, in occasione di un’edizione de La TerraTrema, ebbe a dire di provare per i fratelli Garella quel senso di protezione che esplode di fronte a fattezze e modi di chi è intriso d’inviolabile giovinezza e di quieto coraggio. Come il Louis Cuchas di Simenon l’Oliver Twist dickensiano, aveva detto.
A questa suggestione ne aggiungo un’altra, che cade dentro l’ultimo novecento e risale su, fino ad oggi. Se guardo a Daniele Garella, al suo agire di vignaiolo, ritrovo le chitarre estreme, precise e personalissime di Egle Sommacal di Massimo Volume. La fermezza scomoda di chi rimane nel luogo dell’indipendenza e della coerenza.
Restino lontane le mode.
La giornata non è bella, è piuttosto uggiosa ed è un peccato.
Gennaio è passato sotto cieli cilestrini, confortato da un sole già tiepido. Una mite esplosione che, sappiamo, porta poco di buono.
Serve il freddo, servono piogge e temperature basse.
Godere del sole così, tra gennaio e febbraio, ha il gusto discorde di un declino irrimediabile e pure piacevole, come rane nel pentolone.
Ma è domenica e qualcosa di umido oggi viene giù. Tenue pioggerellina, rallegriamocene.
L’orizzonte è ristretto dalla nebbia, poco spazio c’è per confrontarsi col paesaggio. Il panorama è velato da una patina biancastra tale e quale a quella che avvolge gli acini di nebbiolo. Verso il nebbiolo andiamo.
Quello di Masserano è un piccolo territorio, collinare, ai piedi delle grandi montagne, letteralmente Piemonte. Guarda in direzione del Lago Maggiore e la provincia è quella di Biella.
Per arrivarci, dal sud di Milano, attraversi un panorama orizzontale di pianure, campi, aironi. Iowa se non fosse per gli Ibis accovacciati.
Ricognizioni
C’è nella testa un’idea di Piemonte smisurato che mette nel calderone mille cose e le mescola.
Savoia, ribelli valsusini, Nuto Revelli e i suoi vinti, le anime della Resistenza popolare tra le montagne, la FIAT di Gianni Agnelli, l’emigrazione coatta dal sud a lì, Sante Notarnicola dalla Puglia, Adriano Olivetti, Ivrea, la Juventus e il Toro.
Ultime vengono le frontiere a Claviere, le madamine sìtav, Chiara Appendino, che a Torino ha appena sgomberato venticinque anni di storia sociale e di Asilo. Segnacci di tempi recenti, ognuno a suo modo.
In questo Piemonte arriviamo e c’è la Biella che fu industrializzata dal tessile negli anni d’oro dell’imprenditoria rampante che si è fatta da sola, c’è la Biella di Aiazzone, della nascita delle televisioni commerciali, degli spot e delle frasi che restano in testa, provare per credere, oggi inabissata, in un declino inesorabile e sterile.
In questo Piemonte c’è Soldati e la sua personale, amorosa, santificazione della regione.
C’è la molteplicità infinita di variabili che racchiude, tra vigne e persone. Le squadreminori e quelle gigantesche. L’abitudine al vino.
Le Langhe, il Monferrato, l’Astigiano, l’Alto Piemonte. Le microregioni, le microzone, le varietà sterminate, la vocazione rinomatissima, le quotazioni milionarie, l’industrializzazione della produzione e l’eccellenza reale anche.
Masserano di Biella non è lontana da questi clamori.
Poco distante Gattinara, Lessona e la sua secolare storia d’Italia, di banche, di vino.
Lessona ha conosciuto il successo economico e continua a cavalcarlo senza mai cedere.
Si legge nelle quotazioni delle terre. Si è aggrappata al nome delle Tenute Sella, ai loro investimenti, ai loro prestiti, alle conseguenze per chi non onorava l’assolvimento del debito.
Molto di quel che poteva essere tradotto in superficie vitata lo è diventato o lo diventerà a breve.
Masserano però ha una storia diversa.
È una zona vocata ma più difficile, con terrazzamenti stretti e pendii irregolari, un territorio che poco ha investito su nuovi impianti.
A fine anni Novanta, qui, abita Giuan, uomo alla mano, disponibile, ben disposto, che ha già la sua età quando gli si presentano in vigna due giovanissimi del luogo, Cristiano e Daniele Garella. Cristiano ha appena finito le medie. Lui e Daniele, più grande di qualche anno, si seguono l’un l’altro, nelle scoperte di chi entra ed esce dall’adolescenza. Il vino li ha stregati. Il vino e tutto quello che si muove intorno, Giuan compreso.
Giuan ha una piccola produzione di vino, sfuso, per consumo personale e per qualche impercettibile vendita. Poco, una giornata di vigna si dice dalle sue parti, poco più di un terzo di un ettaro, minuscole vigne intorno a casa, come quasi tutti a Masserano.
Qui li accoglie e insegna loro il vino, alla sua maniera. Racconta la storia di quelle vigne, immagina la provenienza, dice che la più vecchia fu piantata nei primi del Novecento, che alcune sono a piede franco, protette dal clima favorevole, diffuse per propaggine da un ramo lungo ben affondato nel terreno.
Nebbiolo, croatina, vespolina, negrera. Giuan racconta di un lunghissimo elenco di varietà locali e non, come il ciliegiolo o lo chatus, nebbiolo di Dronero, quest’ultimo lì forse per l’uso di scambiare barbatelle tra giovani in servizio militare nelle trasferte forzate dei mesi di leva.
Quando Giuan viene a mancare, nel 2003, è un novantenne sereno, felice di aver vissuto come voleva.
Daniele e Cristiano decidono di acquisire le sue vigne e di dedicare a lui il primo vino prodotto, ilJuan, il suo stesso vino ma fatto da mani diverse, le loro.
Dentro ogni bottiglia l’omaggio alla vita di quell’uomo tradotta da quella trentina DI vitigni diversi.
Juan, vino scorbutico, per metà nebbiolo, poi croatina, colore, scheletro e struttura nei vini di quel territorio, vespolina, coi profumi fruttati.
Inizia qui la storia di vignaiolo di Daniele Garella a Masserano.
Nel corso del tempo Cristiano se ne scosta un poco per un suo percorso personale e subentra Raffaella Bucci, compagna di vita e di vigna di Daniele.
Qua finiscono le rocce del Bramaterra e iniziano le sabbie marine del Lessona. Siamo sul confine.
Aspettano di fronte la cantina, un tempo era casa di Giuan. La nebbia impedisce di avere un quadro chiaro delle altezze e delle distanze tra colline, vigne, strade ma Daniele e Raffaella ci presentano a parole quel panorama puntando sguardo e indice lontano, poi in basso, alla terra e poi su, al cielo.
Inverno è stagione di quiete. Daniele usa camminare per le vigne quasi solo per vedere come stanno.
Geomorfia impone: non potrà mai essere un corpo unico. Saranno sempre piccolissime vigne sparse, sottratte ad altri destini.
Coltivarle ha permesso a Daniele di non far sparire l’anima contadina del territorio quando il mestiere in vigna si trovò a combattere contro villette, spopolamento, l’incolto e l’avanzamento dei boschi.
Mille volte ci ha raccontato e ora abbiamo modo di camminare tra quelle storie.
Il nostro paesaggio è lontanissimo da quello antropizzato della Langa, è un paesaggio che sta perdendo il suo equilibrio tra parte coltivata e parte non vissuta dall’uomo perché la costruzione che continua nel fondovalle ha portato la collina a diventare semplicemente una zona residenziale.
Le vigne sono annidate in mezzo all’abitato, quasi dappertutto.
–Buongiorno.
– Buongiorno, rivolgiamo un saluto al vicino di casa.
Tra le vigne le case, qui è pura agricoltura periurbana.
Urbe limitata a poche case di paese ma la promiscuità tra abitato e vigne è evidente.
Solo in Costiera Amalfitana ho visto qualcosa del genere. E non è poi una boutade priva di senso.
Ulivi settecenteschi riconosciuti come biotipo locale. Cipressi, pini marittimi, cespugli di mirto, qualche agave e un glorioso fico d’india. Questa è una zona molto mite, rarissimamente si va sotto lo zero.
Nel Pliocene qui era mare, quel che oggi chiamiamo Adriatico. Qui si cingeva il golfo pliocenico padano. La terra lo racconta: rocce porfiriche in disgregazione, sabbie vulcaniche, sabbie marine.
Daniele e Raffaella ci portano in auto, è inevitabile.
Le vigne tra loro non sono distantissime, duecento metri in linea d’aria ma ci sono le colline, c’è da girare.
Masserano, Brusnengo e Lessona, appena è stato possibile hanno cercato di acquistare quei piccoli pezzetti che avevano adocchiato, come la vigna dei sogni, un desiderio tra fiori di camomilla e querce. È un sogno comprato cinque o sei anni fa. Quasi tutto a nebbiolo, poi, più in basso, un po’ di croatina, un po’ di vespolina. È una vigna vecchia di sessanta, settant’anni che guarda ad ovest pieno su una vena purissima di rocce e di sabbia, uno strato di roccia che si disgrega. Guarda alla montagna e la maturazione si prende tempo, è più lenta. È entrata nel Juan e fa il nebbiolo in purezza, il Numech.
Accanto la vigna del Giuseppe, che forse acquisiranno.
Partiamo ancora
Visitiamo San Sebastiano allo Zoppo, il cru assoluto di Lessona. Daniele ha cura di mostrarci anche il lavoro altrui, come in questo caso.
Una vigna spettacolare su cui andrebbe fatto un lavoro certosino di mappatura, microzone che si susseguono in pochi metri.
Nella Langa questo patrimonio non c’è, le differenze sono molto più contenute.
Per Daniele è impossibile pensare a un’unica continuità tra le sue vigne, sono tutte diverse, glielo insegnava Giuan, lo dicono il territorio e la natura di queste terre. Ogni vendemmia è dunque un lavoro di relazione e dialogo tra individui, con ognuna delle piante.
L’università di Torino ha colto a pieno la ricchezza in termini di biodiversità viticola di queste zone dedicando studi accurati alle sue vigne.
Il vignaiolo Daniele Garella ci piace molto, non lo nascondiamo.
Lavora sodo, si concentra tantissimo sulle sue scelte, va avanti senza fronzoli.
Piano piano. Ma senza cedimenti. Aveva detto lui stesso.
La sua crescita è piantata nel mondo reale, non ha cavalcato mode, tendenze, etichette seppur aiutino nelle vendite. Daniele non ama i dogmi, tanto meno le formule precostituite, lo ha ripetuto tante volte.
Ha un’idea politica del suo mestiere. Si legge evidente nelle scelte che opera in vigna, in cantina, nella distribuzione, nelle relazioni. Prendiamo la sua vicinanza come una grande opportunità, non sono molte le possibilità di incontrarlo fuori da La Terra Trema e lui ha supportato il progetto passo per passo, fin dall’inizio.
Daniele ha cambiato le sorti del suo territorio, ha preservato un patrimonio culturale che sarebbe andato perso. Adesso anche a chi lo ha visto affannarsi su e giù per le colline è più chiaro quello sforzo. E non solo. Nell’ultimo quindicennio, dopo la gravissima crisi del settore industriale del biellese, di quello tessile in particolare, molti hanno riscoperto l’agricoltura, molti stanno tornando a fare vino, in fretta e furia perché non saprebbero altrimenti come mangiare.
Qui è un paradosso occupato
Continuiamo il viaggio tra le vigne. Daniele questo paradosso l’ha preso che era in uno stato quasi brado, nessuno lo reclamava.
Il signor Negri. Ha tenuto la vigna, l’ha accudita.Quando non ha più potuto a lui è subentrato Daniele. In alcuni casi la proprietà è un vincolo, nessuno vuole saperne più, succede quando i vecchi proprietari espatriano, se sono deceduti, se hanno scelto la città per la campagna, succede per molti motivi. Succede.
Il sentimento di appartenenza al mondo non potrebbe mai coincidere con il desiderio di dominarlo.
Potrebbe essere una declinazione di questo precetto clementiano. Con Daniele e altri vignaioli se ne era parlato nel 2012 a La Terra Trema insieme a Simonetta Lorigliola.
Mettiamo noi stessi a confronto con una stagione, con una vigna e questo dovrebbe accadere per tutti gli altri ambienti che frequentiamo. Nel momento in cui mettiamo affetto ed empatia per quello che abbiamo intorno e più vicino automaticamente quella che è un’azione individuale produce bene collettivo. Nel momento in cui la nostra pratica individuale, il nostro pensiero singolo tende al meglio tutto quanto non può che andare in una direzione più costruttiva, di maggiore equilibrio, maggiore armonia. Il bene collettivo si costruisce attraverso la consapevolezza dei singoli. Aveva detto Daniele in quell’occasione.
Nel paradosso occupato hanno trovato vespolina e negrera, che somiglia al nero d’Avola e al refosco ma con qualcosa di più nobile.
Il viaggio tra le vigne continua ancora
Una si trova al limite di un campo da tennis. Se capita che le palline vadano a finire in vigna è impossibile recuperarle perché è sempre inerbatissima.Naturalmente.
Un’altra è cinta dal bosco con gli inconvenienti che questo comporta, come i cinghiali per fare un esempio ma il microclima in vigna è ottimale. Che vuoi farci, coi cinghiali ci combatti.Spostarsi tra una vigna e l’altra è aggirarsi in un museo vivo, vivente, di piccoli quadri che raffigurano e preservano un mondo. L’abitudine di proteggere tutto questo, con naturalità, senza menarsela, non scalfisce il valore del lavoro che qui si sta compiendo. C’è, che sia meno sotto i nostri occhi.
Il tempo e l’attesa
La cantina è piccolissima ma sufficiente se lavori su rese molto basse (attorno ai 15 quintali per ettaro). Ha dovuto lavorare parecchio per riaddomesticare le piante là dove erano state abbandonate.
Piante vecchie che hanno dovuto imparare a dosarsi ancora, su misure nuove, parlando con lui. Ogni vendemmia è stato un lungo lavoro di relazione e dialogo con ognuna delle piante nel tentativo di capirsi.
Daniele dispone nel tempo una fiducia inusuale. Qui sembra avere la stessa attitudine delle sue vigne secolari. Se parli con lui delle attese, delle previsioni, guarda lungo senza scomporsi.
Ammette che, in cantina, per lui è una sorpresa continua, variabile di anno in anno, mai uguale, anche per i vini di una stessa annata. Le previsioni e le attese sono fatte per essere smentite.
Immagina i suoi vini a riposo per decenni, immagina parabole quasi centenarie che si evolvono nonostante lui. Gli sta a cuore un certo equilibro nei tannini sì, lavora tanto su quello, ma non spinge, si lascia sorprendere dal carattere individuale di ognuno dei suoi vini. Le macerazioni sono molto lunghe, per il Nebbiolo in purezza cento giorni in certi anni. Per il Juan vanno dai venti ai cinquanta, dipende.
Nel prodigio dei suoi vini c’è la storia di lui stesso, persona sulla terra, nel mondo reale. Lontano da passerelle, vetrine, dalle occasioni patinate che il settore sa riservare.
Lo racconta attraverso le incursioni nella vita quotidiana che ci ha permesso di calcare: il circolo popolare, la seconda casa. Il ristoro accogliente degli amici argentini.
Luoghi di umanità aperta, priva di filtri.
Daniele e Raffaella caricano il vino in macchina. Tra le bottiglie, i due vermouth agricoli Monterosa, risultato di un progetto relativamente nuovo a conferma dell’indole aperta, curiosa, della contaminazione creativa che in Daniele sembra mai esaurirsi. Un progetto che ruota intorno al Monte Rosa, alle radici e alle ali della montagna che sovrasta su queste terre. Dentro c’è veramente un mondo. Nel vermouth bianco a erbaluce, cortese, chardonnay si mescolano una cascata di erbe spontanee dei boschi ed essenze coltivate. Nel vermouth rosso, territoriale fino all’osso, i vitigni alla base sono croatina, nebbiolo, uva rara, vespolina.
Il grande albero raffigurato sulla bella etichetta è una chimerafiorita e raccoglie ognuna delle piante contenute nel vermouth. Albero della Vita, di incroci, incontri, convivenze.
(…) a vermùt, insomma ci sta tutt.
Ci sciogliamo traempanadas, asado, chimichurri, a pranzo da Josè e sua moglie.
Il luogo, appena preso in gestione, è ritrovo di vecchi del paese e di ciclisti estremi.
Briscola piemontese e caschetti aereodinamici.
Alla miriade di mountain bike infangate parcheggiate all’ingresso corrisponde una popolazione di bikers all’interno infangata ella stessa e colta nella volontà impudica di rinfrancarsi sul serio dopo salite e discese.
En la rayuela
O en la vida
Vos podes elegir un día.
¿Por que costado
De que lado saltarás?
Rayuela
da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 12
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
Last modified: 2 Mar 2023