Eventi catastrofici come espressione di un processo apocalittico
La catastrofe nucleare ha soffocato le vite di chi abita Fukushima e il Giappone intero in una sospensione temporale apocalittica determinando una frattura che sarà fondante nelle contrapposizioni dei movimenti alle politiche governative nazionali
testo di Sabu Kohso
illustrazione di Giacomo Silva
traduzione di Irene Maccagnani
Sono trascorsi alcuni anni dall’esplosione nucleare di Fukushima Daiichi. E, lungi dall’essere cosa del passato, le calamità stanno aumentando la loro portata, visto che interessano ormai ogni angolo del pianeta vivente. I reattori danneggiati continuano a emettere radionuclidi letali diretti verso il cielo, l’oceano e il terreno, e questi si fondono sempre più con il corpo del pianeta. Ancora più preoccupante è il fatto che questo assorbimento sia facilitato dalle politiche del governo giapponese, come la distribuzione a livello internazionale di prodotti alimentari irradiati e l’imposizione dei detriti nucleari ai principali centri urbani dell’intero Paese, che ha come risultato una “nazionalizzazione” della contaminazione radioattiva. L’amministrazione del Partito Liberal Democratico nel regime post-disastro nucleare persiste nel suo orientamento pro-nucleare, pro-riarmo e pro-centrismo del mercato. Nel frattempo, il popolo si è attivato per proteggere il proprio corpo, la propria mente e l’ambiente circostante attraverso azioni volontarie di varia natura, a cominciare dal controllo delle radiazioni nel cibo, nell’aria e nell’acqua, fino alle evacuazioni volontarie, le battaglie legali e le manifestazioni. Tutti sforzi che, tuttavia, non hanno avuto un impatto tale da suscitare cambiamenti di orientamento nella società.
Il disastro di Fukushima ha generato innumerevoli discorsi e dichiarazioni che ben rappresentano la complessità della situazione. Ma il senso di urgenza e l’enorme portata della situazione tendono a far confluire il tutto in una “crisi umanitaria” che a sua volta conforma l’idea di una soluzione monumentale data dall’unione di tutti gli attori – da quelli al potere, fino ai partiti progressisti e i movimenti popolari – dimenticando la diversità delle situazioni con cui devono fare i conti i componenti dei diversi settori e strati sociali. È comprensibile che, sopraffatti dalla portata di questa crisi senza precedenti o da una creatura mostruosa e indomita quanto il Leviatano1, ci sentiamo impotenti e proviamo l’immediato bisogno di appellarci all’attore con maggiore potere e capacità decisionale; un attore che, sebbene sia un costrutto artificiale, sia in grado di guidare le masse vaganti in preda al panico. Certo, il problema di Fukushima incarna gli attributi degli “iperoggetti” concettualizzati da Timothy Morton2, elementi massivamente distribuiti nel tempo e nello spazio e in relazione con i fattori umani; elementi che pongono fine alla possibilità di un salto trascendentale ‘al di fuori’ della realtà fisica; elementi sempre più vicini, da un lato il buco nero, la biosfera e il sistema solare, e la somma totale di tutti i materiali nucleari sulla Terra, o solo il plutonio, o l’uranio dall’altro. La loro rivelazione è epocale, per come determinano il destino del nostro corpo, mente, società e ambiente.
Il presente progetto, tuttavia, si allontana dal percorso unilaterale verso una soluzione monumentale, che in termini di mobilitazione popolare di solito incentiva soltanto pressioni o dimostrazioni che puntano a ricorrere a poteri superiori. Al contrario, cerca di analizzare il problema di Fukushima dal punto di vista della lotta concreta per la sopravvivenza, e di vedere dove questa potrebbe portare. In altre parole, sceglie come principale focus il modo in cui le persone hanno interagito con le situazioni post-Fukushima, per capire sia come si articolano le loro battaglie in quanto relazioni politiche, sociali, economiche e territoriali, e che in che modo le stanno cambiando. In fin dei conti, non si può parlare di idee risolutive senza considerare queste lotte quotidiane. Se non si segue questa strada, qualsiasi misura porterà alla creazione di progetti che continueranno ad aumentare il potere nelle mani dell’insieme di apparati che hanno, in prima istanza, preparato il terreno per il disastro di Fukushima. Ciò che adesso è in gioco, perciò, è la decomposizione e la ricomposizione delle relazioni di potere degli apparati fondazionali.
Il disastro nucleare è irreversibile. La contaminazione radioattiva implica due fatali perdite per gli abitanti del pianeta. Per via del loro potere di mutazione e distruzione dell’attività genetica, le emivite dei nuclidi radioattivi limiterebbero ampiamente il futuro come una temporalità sconosciuta e indeterminata da cui poter creare nuove esperienze planetarie. Prima o poi saremo tutti contaminati dalla radiazione! E allora la complessità mobile dell’espansione della radiazione ci priverebbe gradualmente della connessione permanente con la terra, un tempo ritenuta la base per la creazione di “beni comuni”. In molte aree, un’utopia post-disastro – o la comunità di mutuo soccorso che può stabilirsi soprattutto a seguito di un disastro – non si potrà più costruire3. Il che equivale a dire che le aspirazioni e le risorse, due elementi vitali per creare e agire, stanno subendo un impoverimento senza precedenti. E tuttavia, la gente non smette mai di lottare, di opporsi e di creare. Questo progetto trova i suoi presupposti in questo spiraglio di luce in mezzo alle tenebre più profonde.
Il nome Fukushima indica sia un evento che un processo, per la precisione, un evento catastrofico e un processo apocalittico. Dopo che quest’incidente di origine sia naturale che artificiale ha causato, in quanto singolo evento, una rottura radicale, i poteri economici e politici, per non parlare delle istituzioni sociali, hanno interagito per continuare a sostenere il loro business-as-usual. In sostanza, il governo è intervenuto immediatamente per inglobare forzatamente le situazioni critiche all’interno dell’ordine precostituito. Sono state promosse sistematicamente delle risposte di emergenza al disastro, al fine di garantire la stabilità delle operazioni politiche ed economiche, a spese del benessere della popolazione. Nel frattempo, tuttavia, si sono aperte delle fratture che in sostanza opponevano resistenza a questo processo continuando ad insistere sulla natura isolata, per esempio della devastazione e della lotta del popolo per la sopravvivenza. L’essenza del disastro di Fukushima è questa dinamica asimmetrica tra le operazioni di potere e le lotte quotidiane. Sono tentato di impiegare l’avverbio biblico “apocalittico” per introdurre queste riflessioni proprio perché la situazione distopica sollecita e allo stesso tempo distrugge, o meglio, decostruisce, l’idea di “fine” o di “giudizio finale”. Un tempo l’Apocalisse simboleggiava una rottura radicale, un momento messianico, la fine oppure la salvezza/emancipazione del mondo; e sebbene alcuni cristiani evangelici negli Stati Uniti credano ancora nell’Armageddon come luogo della battaglia tra il bene (cristiani) e il male (mussulmani), il nostro pensiero di sinistra tende a sperare, per buone ragioni, nel crollo totale del capitalismo, che coinciderebbe con la rivoluzione. Ma, ad oggi, ciò che Fukushima pare aver dimostrato è l’estrema impossibilità di una fine di questo tipo, del giudizio; piuttosto, rende manifesto il modo in cui le catastrofi, in quanto eventi, e a prescindere dal livello di devastazione che provocano, vengano assorbite all’interno di un processo che diviene simbolo dei nuovi significati dell’apocalisse. È così che il termine “apocalisse” non sta più a indicare un’immediata fine del mondo, ma piuttosto un processo senza fine verso il futuro predeterminato di un pianeta radioattivo. La dialettica tra catastrofe (evento) e apocalisse (processo) viene dunque vista come il modus operandi del controllo e del funzionamento del mondo post-disastro nucleare.
In una nazione la cui storia è segnata dal ricordo di ricorrenti terremoti, dalla sconfitta inequivocabile in una guerra voluta, e degli attacchi nucleari di Hiroshima e Nagasaki, rappresentazioni apocalittiche di vario tipo compaiono ossessivamente nell’immaginario collettivo di film, fumetti, anime e letteratura. Un dato curioso, se si considera che si tratta di una nazione famosa da sempre per essere la prima produttrice di fantasie futuristiche. Forse l’Apocalisse rappresenta un’espressione del timore nazionale che la storia possa ripetersi? È la manifestazione della condizione universale per cui la peggiore delle ipotesi è più facile da immaginare rispetto alla migliore delle ipotesi? O quest’ossessione distopica è semplicemente un’espressione di “Adesso basta!” verso questo mondo? Non è ancora stata portata a termine una ricerca approfondita riguardo a questo fenomeno. In ogni caso, il disastro di Fukushima sembra indicare che le persone stessero aspettando questo tipo di rottura e che le loro aspettative siano state finalmente colmate in questo terribile modo.
Le nostre menti sono state assorbite dalla sfida tra l’intensità della catastrofe reale e l’intensità di quella immaginaria. Ma ciò che è accaduto a Fukushima potrebbe aver segnato la fine o il limite del regime di rappresentanza, ovvero, della logica culturale che aveva dominato la nazione, e il mondo intero, tanto a lungo. Il processo di Fukushima potrebbe aver superato la nostra ossessione per l’immaginario. E ora, sommata a tutte le altre manifestazioni distopiche che hanno luogo sul nostro pianeta, la cruda realtà di un vissuto tanto oscuro sta diventando insostenibile. È possibile che sia giunto il momento in cui i prodotti dell’immaginario apocalittico dovranno essere sostituiti da soluzioni più pragmatiche, che sviluppino tecniche di sopravvivenza e godimento della vita nonostante la contaminazione da radiazioni. Oppure, per poter essere ancora più creative, le fantasie stesse dovranno essere sostenute da un sapere scientifico e tecnico sempre maggiore.
Il processo apocalittico post-Fukushima naviga nel mare delle nostre percezioni, i nostri affetti e le nostre consapevolezze. Come testimoniano alcuni amici giapponesi, nella mente delle persone non è sorto soltanto un senso di disperazione, tristezza e paura: questa situazione catastrofica ha avuto delle ripercussioni emotive molto più articolate. Insieme all’improvviso riconoscimento della fragilità, la superficialità e l’assurdità di ciò che avrebbe invece dovuto rappresentare il fondamento della nostra quotidianità e del nostro sistema sociale, si sono aperte altre spaccature da cui emergono non soltanto la disperazione e la paura, ma anche le aspettative e le gioie di chi si trova a dover fare i conti con un possibile sgretolamento della normalità.
Apocalisse significa anche “rivelazione”! E ora la gente sa che ad aver portato al peggior disastro nucleare della storia è stato un regime chiamato “democrazia postbellica”, qualcosa che un tempo si riteneva eccezionale, basti pensare alla Costituzione “della pace” (articolo 9 della Costituzione giapponese) e alla prosperità economica. Eppure, tutto ciò è stato costituito anche al fine di addomesticare la popolazione all’interno di una società del controllo altamente sviluppata, sotto l’influsso della strategia militare globale degli Stati Uniti. Per questo motivo, il crollo ha generato e continua a generare un senso di aspettativa e di motivazione alla creazione volta all’ignoto. Non siamo ancora in grado di sviluppare una terminologia specifica per descrivere questa percezione, la schizofrenica associazione di tristezza, rabbia e piacere, ma quest’esplosione di emozioni rappresenta il fulcro della complessità della situazione.
Come Gilles Deleuze suggerisce in uno dei suoi saggi, l’immaginario apocalittico può includere diversi percorsi verso il giudizio e il potere. La distruzione viene prima di tutto interpretata come un atto divino contro un’ingiustizia originata da un eccesso, il che porta poi alla salvezza per mano di un santo. In un’altra dimensione, tuttavia, la distruzione stessa può essere un atto di giustizia da parte del popolo, che esercita sia il suo potere [pouvoir] che la sua potenza [puissance]. Può comprendere la distruzione, la decomposizione e la ricomposizione del potere a un micro-livello: “penetrare in ogni singolo poro del potere, sciamare nei suoi centri, moltiplicarli attraverso l’universo”4.
Tratto da Fukushima & Ses Invisibles.
1 Hobbes, Leviathan, edito da Richard Tuck, Cambridge, New York, Port Chester, Melbourne, Sydney: Cambridge University Press, 1991.
2 Timothy Morton, Hyperobjects – Philosophy and Ecology After the End of the World, Minneapolis, London: University of Minnesota Press, 2013.
3 Rebecca Solnit, A Paradise Built in Hell, Penguin Books, 2009.
4 Gilles Deleuze, Nietzsche and Saint Paul, Lawrence and John of Patmos, Critique et clinique, Les èditions de Minuit, 1993.
Sabu Kohso è nato a Okayama, in Giappone e vive a New York dal 1980. Si occupa di critica politica e sociale. Attivista nella lotta globale e anticapitalista, traduttore, studioso.
Ha pubblicato diversi libri su spazi urbani e movimenti di lotta in Giappone e Corea, ha tradotto libri di Kojin Karatani e David Graeber.
Si è soffermato più volte sul disastro di Fukushima dal punto di vista delle lotte anticapitaliste globali.
da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 09
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
Per la lettura di questo e dei prossimi numeri de L’Almanacco potete scrivere a info@laterratrema.org
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Last modified: 20 Ott 2019