Nicolini, vignaiolo aspro e autentico
di Simonetta Lorigliola
Fotografie di Lorenzo Monasta
In terra di confini e mescolamenti nascono i suoi vini di territorio, lontani da ogni artificio e e modaiolo ammiccamento
Sei a Muggia, piccola perla di storia e architettura veneziana, a torto misconosciuta. Abbarbicata in cima all’Adriatico, rimane appoggiata sull’estremo lembo orientale della provincia più piccola e meticciata d’Italia, quella di Trieste.
Per capire in che terre siamo, per cogliere suggestioni ultralibresche di storia, cultura e geologia basta assaggiare, con l’attenzione che meritano, i vini di Giorgio Nicolini.
Le sue vigne, la sua cantina e la sua abitazione, senza soluzione di continuità, sono sul cocuzzolo di una collina, sopra il borgo urbano, tutto veneziano, sapientemente conservato, sentito e vissuto dagli abitanti. In alto, sorge Muggia vecchia, già insediamento romano e medievale. In località Fontanella, tra stradine strette, tortuose e villette di varia foggia, perlustra bene e lo troverai.
Non cercare insegne, cartelli o specchietti per le allodole. Quelli, con Nicolini, non hanno nulla a che fare. Lui è un vignaiolo che non insegue nessuna moda e nessun dettame di marketing. Ha trovato la sua strada negli anni, piano piano.
Le vigne erano di famiglia e le seguiva suo padre, Livio. Giorgio faceva un altro lavoro, elettricista qualificato e con funzioni di responsabilità nella locale municipalizzata (ora spa, nelle derive delle privatizzazioni salvatutto; Trieste è l’unico comune in regione a non avere l’acqua pubblica).
Aiutava il padre nel tempo libero, in campagna e in cantina. E anche nella gestione delll’osmiza. Osmica, a dirla tutta, poichè parola e grafia sono slovene, e derivano da osem (otto, in sloveno): tanti giorni durava una licenza speciale (tuttora esistente) che l’imperatrice Maria Teresa d’Austria concedeva ai vignaioli per far vendita diretta del loro vino, in casa.
Qui era Impero multiculturale fino al 1918. Altro che italianità.
L’incontro con Luigi Veronelli
“Non ho cominciato con un obiettivo preciso” dice Giorgio “per me era naturale stare qui, accudire il vigneto che era stato di mio nonno, continuare a fare il vino. Mi piaceva stare in vigna, mi è sempre piaciuto il contatto con la terra”.
Nel 2003 la svolta. Ossia l’incontro con Luigi Veronelli.
Il vino di Nicolini era molto poco, era buono e in pochi lo conoscevano. Per la maggior parte veniva venduto sfuso, e solo una piccola parte andava in bottiglia.
Una di quelle bottiglie, la Malvasia, arrivò a Veronelli tramite uno dei suoi più vicini collaboratori, Marc Tibaldi, che a Trieste aveva vissuto e aveva di recente conosciuto Nicolini.
Coup de foudre. Il grande anarchenologo assaggia, si stupisce e – come era suo costume in questi casi- parte subito alla volta di Muggia, per conoscere l’autore di quella Malvasia.
È Rossana, moglie di Giorgio, donna diretta, colta e sensibile a ricordare con sentimento e commozione il primo e i successivi incontri con Veronelli: “È arrivato qui e mi è sembrato di conoscerlo da sempre. Parlava di vini, ma anche di letteratura, storia, poesia. Seduti sotto la pergola passavamo il tempo in chiacchiere preziose, e di grande umanità. Ha dato la svolta all’azienda, è vero. E non lo scorderemo mai. Ma io ricordo soprattutto la grande umanità, la nobiltà della persona. Dopo Veronelli, nessuno nel mondo del vino ha saputo essere critico erudito e imparziale, personalità straordinaria e grande uomo, come lui è stato”.
La Malvasia di Nicolini riceve il Sole di Veronelli nel 2003.
In azienda il telefono comincia a squillare. Un autorevole importatore invia quella Malvasia in Giappone, dove ha (ancora oggi) grande successo.
I clienti e le richieste lentamente aumentano. A fasi alterne, e non senza fatica, l’azienda cresce.
Nel 2009 Giorgio va in pensione, è ancora giovane e può dedicare più tempo alla vigna. Decide di investire in un miglioramento della cantina, nell’acquisto di un piccolo nuovo trattore. Ci vogliono risorse, e le liquidazioni di Giorgio e Rossana sono destinate a quello.
Di padre in figlio
Da qualche anno l’azienda conta su un apporto importante e costante, quello di Eugenio, Nicolini junior.
È lui a caricare il furgoncino e a percorrere l’A4 che ogni anno, da molti anni, lo porta a Milano, a La Terra Trema. Appuntamento ormai imprescindibile.
Vediamo Eugenio in vigna, in un sabato mattina di febbraio, cielo azzurro e sole tiepido, a lavorare. Non è un chiacchierone, ma ha spalle larghe e portamento sicuro. La sua passione per la terra gliela leggi in faccia, la sua sincerità nell’impegno sta tutta nella larghezza tersa del suo sorriso.
Con il suo nome, dall’etimologia densa e felice (ευ “bene” e γενης “nato”: la buona origine, la buona stirpe) va in bottiglia un piccolo diamante dell’azienda, il Moscato.
Un Moscato fermo e secco, come si trova in diverse parti dell’Istria. Da quest’anno quel vino conta sull’apporto di vigne vecchie cento anni di moscato bianco istriano, da un vigneto che Eugenio ha preso in affido, a cavallo del confine. Storia, memoria e territorio, di cui le vecchie vigne sono sempre materiali testimoni. Le sentirai nella solida ed elegante potenza di questo Moscato 2016 (assaggiato dalla botte), nei suoi profumi di biancospino e cedro; in bocca si fa affusolato e penetrante, regalando aromatiche lunghezze di piccola gioia.
Tre i rossi dell’azienda, entrambi ereditati dai vigneti familiari. La Piccola nera, che nasce dal vitigno omonimo, misterioso e poco diffuso. Così come il Borgogna, nome e storia che si perde nei fumi del tempo. “Forse”, dice Giorgio, “è un parente del Franconia”. E l’assaggio confermerebbe l’ipotesi. Infine, l’immancabile Refosco.
Le cose e i vini autentici
Nonostante gli investimenti e i miglioramenti qualitativi, l’azienda non lievita a dismisura. Giorgio sa quale deve essere la giusta dimensione. E il troppo non lo interessa.
L’estensione, oggi, si attesta intorno ai 2 ettari e mezzo.
C’è una vera cantina, bene organizzata, sotto la casa. C’è un luogo destinato all’assaggio e all’accoglienza. Ma questa non è una di quelle aziende in cui si batte cassa e cartellino ad accogliere comitive.
Qui tutto è lento e misurato. Senza salamelecchi. Se chiami, se possono, ti ricevono. In modo semplice e diretto.
“Sono un orso”, dice Giorgio di sè, bonariamente e con un filo di orgoglio.
Ma il suo carattere ruvido rimanda immediatamente alla materialità irregolare delle cose autentiche.
L’osmica è chiusa da qualche anno. Peccato. Il tavolo sotto la pergola era un must il 25 aprile, anniversario della Liberazione, dopo la consueta visita alla Risiera di San Sabba a sentire il coro partigiano, in quel che fu l’unico campo di sterminio italiano, nella città di Trieste. Per noi pochi eno-dissidenti triestini era tappa d’obbligo quel brindisi al futuro, in senso pienamente veronelliano. E poteva essere solo in quel luogo, con la Malvasia di Nicolini, a “celebrare la vita”.
Però ha fatto bene a chiudere, e ne spiega le ragioni: “Mi si stringeva il cuore a dar via il vino in quel modo, a persone – spesso ragazzi- che affollavano la mescita fino a tarda ora con il solo scopo di assumere grandi quantità di alcol, senza pensare a quel che bevevano. Molto raramente capitava qualcuno che pensasse a quel che aveva nel bicchiere e con cui scambiare due parole sul tema”.
Vitoska, vino metamorfico
Gigi Brozzoni definisce i vini di Nicolini “contadini”, rifacendosi alla nota frase di Veronelli: “Il peggior vino contadino è migliore del miglior vino industriale”. Queste parole furono dette per nobilitare il lavoro non seriale di chi, in piccole e faticose produzioni, cerca l’espressione – anche rustica – di un territorio senza ricorrere a comodi artifici enologici.
I vini di Nicolini sono vivi, sempre in movimento. Lo stesso vino, assaggiato in differenti momenti, può essere diverso. Ne è testimone soprattutto la sua Vitovska (bianco autoctono del Carso, da uve omonime), di per sè un vino metamorfico, che trova la sua stabilità soltanto dopo molti anni, anche se questo quasi nessuno l’ha capito e lo pratica, salvo rari casi. Eppure una Vitovska, accudita e vinificata degnamente, ti parlerà davvero di sè dopo 5, 7 o anche 10 anni. Una sfida, che andrebbe raccolta.
Terra, territorio, meticciamento
In ogni modo, l’assaggio dei vini di Nicolini parla sinceramente di un territorio.
Accóstati alla sua Malvasia e ascolta la sua bella, suadente e decisa mineralità, la sua sapidità rotonda e soave, che subito ti catapulta sui terreni argillosi dell’Istria.
Perchè Muggia è già Istria, come ben spiegano i geologi. È l’inizio di quella parte dell’Istria caratterizzata dalla presenza di marne e terreni argillosi, chiamata Istria gialla.
Ma la vera differenza la fanno le uve, una parte, che provengono da vigne centenarie: da lì derivano la concentrazione e quel patrimonio sensoriale che rende questa Malvasia un pezzo da novanta.
La scelta di accostarla alla botte di rovere, anche nuova, non può naturalmente domare il suo carattere e, anzi, se ne fa portavoce.
L’assaggio, dell’annata 2016, preso dalla botte, conferma tutto, pienamente. Quella di Nicolini è una Malvasia tutta muggesana, ossia d’Istria, così come il suo nome recita: malvasia istriana. Di colore giallo oro, ti sorride, solare, dal calice. E abita a mille miglia dalla Malvasia (grande, quando è grande) eterea e geometrica prodotta sul Carso, il calcareo altipiano sopra Trieste, a poca distanza da qui.
Così vicino, così lontano.
D’altra parte i confini, da queste parti, sono questione ordinaria. Ma anche complessa e spinosa poichè hanno parlato la brutta lingua dell’ideologia nazionalista e fascista. E il sano orgoglio di chi non l’ha mai mandata giù. Perchè i confini (tutti) non sono linee da spostare, ma limiti da superare.
Queste, sarebbero altre storie, è vero. Ma anche le stesse: se non ci fosse stato attraversamento, commistione, meticciamento oggi non esisterebbero i vini di Nicolini.
E noi non potremmo godere, nell’assaggio, la gioia dello sconfinamento.
Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 17
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
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Last modified: 10 Ott 2023