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Arte e agricoltura, chi si muove nel terreno vasto e contraddittorio dell’arte contemporanea sa bene che è un trend che funziona, che piace molto al sistema dell’arte perché carico di quel buonismo, furbo e infame, da slogan Expo: “Nutrire il pianeta”. Quindi, perché occuparsene?

di Mattia Pellegrini
Immagini di Jesal Kapadia e Mattia Pellegrini

Penso alla relazione tra arte e agricoltura e appare Min Tanaka: “Io sono un contadino, il fango per me è la cosa più ricca del mondo. È pieno di vita e di morte. Così mi piace connettermi sempre con il terreno. Le piante stanno morendo nel terreno e i semi crescono nel terreno. Il mio corpo è il mio ambiente più grande… il mio corpo è il mio primo e ultimo ambiente, i movimenti rotti, il suo apparire apparentemente non naturale nella natura mentre pratica la sua danza, il buto. Penso a quanto Tanaka abbia appreso nel suo essere contadino dalla terra dai semi dal fango su vita e morte, su creazione e trasformazione di ciò che ci abita a fianco e dentro, all’interno.
Un uso non estetizzante della terra, non la Land Art o Joseph Beuys, ma il Buto, la danza delle tenebre, Min Tanaka in mezzo ai matti della clinica anti-psichiatrica La Borde: contrapposizione e contingenza corpo-mente-natura. Ed ecco che il “perché occuparsene” prende una certa forma, un fuori si apre antico, fugge dalla sussunzione o almeno prova ad abitare questa linea di fuga che eccede la sussunzione. Una forma si tende alla poetica: la terra che si fa corpo, il corpo che si apre alle possibilità del suo agire vegetale. Una questione che si nutre di conoscenza e pratica poetica di essa con la consapevolezza che il sapere non è soltanto mezzo di comprensione ma possibilità di presa di posizione. La posizione è nel volere attuare pratiche comuni, di conoscenza che agiti resistenza, all’interno di un campo come quello del cibo e dell’agricoltura sotto attacco del capitalismo finanziario. Una decisione che si nutre di un movimento internazionale che vede in questo sapere materiale sotto attacco uno tra gli spazi dove immaginare nuove forme di vita. Dalle cucine meticce delle occupazioni abitative alle frontiere dove i migranti spingono i bordi, dai teatri nelle metropoli alle comuni nelle campagne si ripensano i saperi, si incontrano gusti e prassi differenti, si propongono nuove modalità di distribuzione rimettendo nelle nostre mani la riproduzione della vita.
Questo tipo di pratiche si muove verso attitudini creative e fugge da una certa militanza politica.

Silvia Federici tocca qui alcuni punti di un possibile nuovo agire: “Per fare una lotta qualsiasi sul cibo è necessaria una storia culturale. Si possono scrivere libri, poesie, fantasie, si possono fare film a partire dal cibo, si può creare una storia densa di rapporti sociali, di concezioni della natura. Noi abbiamo impoverito enormemente il discorso lotta, politica, militanza. È diventata una cosa truculenta e povera. Io invece sono convinta che la gente abbia voglia, fame e sete di conoscenza, che è però diversa da quella burocratica e noiosissima delle scuole e spesso anche dei circoli militanti. Bisogna aprirci a una creatività per cui la lotta per il cibo è anche culturale, che ci pone in contatto con altre culture, perché attraverso il cibo si esprimono relazioni sociali, ambientali, ecc. Un sapere che permetta di vedere i raccordi tra la lotta per il cibo e quella per le terre, perché non puoi fare l’una senza pensare anche all’altra”.
Il cibo, la terra, le narrazioni, il condividere conoscenze fuori dagli specialismi possono divenire il mezzo con cui costruire le contrade a venire.
Ecco le premesse, teoriche e affettive, in cui nasce il desiderio di rimettere a posto una casa e aprirla per tentare di farne un luogo di sperimentazione magari artistica magari politica magari contadina.

Gli amici de La Terra Trema sono passati a trovarci a giugno come tappa a metà strada prima di ripartire verso Santo Stefano per il nostro annuale pellegrinaggio libertario al cimitero degli ergastolani. Sono venuti anche perché da un po’ li stressavamo e volevamo raccontarli del tentativo, fragile e gioioso, di cominciare a interagire con la terra. D’altronde oltre che essere amici con cui condividiamo una lotta contro l’ergastolo sono una di quelle realtà che hanno affrontato il tema dell’agricoltura, captando che le urgenze, le arene del politico, si stavano spostando in altri territori. Non credo che siano stati folgorati dal nostro uso del terreno, dalle nostre capacità contadine, il metodo Fukuoka forse era un po’ troppo esagerato ai loro occhi. Il concetto Zen del Mu, il non fare che ha ispirato l’agricoltura naturale di Fukuoka a queste latitudini, di marxismo eretico di fuga e rifiuto del lavoro, può trasformarsi in fankazzismo.
Penso che la pratica del contadino sia agli antipodi di quella dell’artista contemporaneo. Non vorrei scomodare Caino e Abele, la società sedentaria e quella nomadica, ma qui in un certo modo si mostrano. Per chi attraversa il mondo dell’arte, seppur possibilmente non istituzionale e in cerca più di una sinergia con la prassi critica interdisciplinare che con musei e gallerie d’arte, è abituato, e in qualche modo forzato, allo spostarsi di progetto in progetto, di città in città, di divano in divano.
Questo nomadismo, che non è solo dei “lavoratori della conoscenza” ma è una delle specificità del lavoro contemporaneo, non si innesta con la pratica del contadino. Come mettere insieme questi due mondi è già in sé contraddittorio e anche se non riusciremo a diventare “buoni” contadini non possiamo non essere travolti dalla profondità in cui questi saperi si immergono. Non mi sono meravigliato quando a un seminario sul Comunismo del sensibile, per lo più partecipato da artisti, Ilaria Bussoni disse con chiarezza che la più grande rivoluzione estetica degli ultimi vent’anni è il vino naturale. Una rivoluzione estetica appunto. Politica.
Questo per seguire le linee d’incontro, i debordamenti continui, le sovrapposizioni incessanti, così siamo arrivati al provare a fare i contadini perché ci capitava di attraversare esperienze conflittuali e molte di esse avevano a che fare con il cibo e la terra. Quando parlo al plurale mi riferisco a un gruppo eterogeneo, e non sempre lo stesso, alla ricerca di qualcosa di più che la misera sopravvivenza. Abbiamo imparato che il momento in cui scegliamo che tipo di cibo mangiare e modo in cui coltivare è un atto politico importante, certo più decisivo che la farsa democratica del voto e, probabilmente, anche del finire catturati negli “eventi” di contestazione che la società dello spettacolo ci prepara e in cui vuole circoscriverci. Devo confessare che mi ci è voluto un po’ di tempo per capirlo e mi divertivo nel farmi gioco di chi aveva questa strana idea su cibo e militanza. Poi sono iniziate le letture e gli incontri con amici di diverse terre e con i contadini che le terre le trasformano, le curano e si lasciano curare da esse. Da Castiglione d’Otranto fino all’Armenia, da Santo Stefano al nord dell’Europa, le riflessioni portavano a un rapporto altro con il cibo e la terra, con saperi antichi e pratiche destituenti.
Penso che sia tale consapevolezza che porta a instaurare una relazione con la terra e non il canticchio mainstream, individualistico e retorico, del ritorno alla terra. Non c’è ritorno alla terra ma la costruzione di concatenamenti con cui viverla, abitarla. Il debordamento è importante e la pratica artistica può venirci incontro. Chi si muove nel territorio dell’arte può giocare sui bordi delle discipline e in questo modo provare a creare fratture, interstizi.
Il tentativo di questa Casa, che forse chiameremo CasaBlu, non è quello di divenir contadini ma iniziare un viaggio tra amici mantenendo l’attitudine alla metamorfosi, così da abitare un luogo tra la terra, il creare, le possibilità di gioire. Una Casa in cui per dei periodi vivere-in-comune, organizzare la raccolta delle olive, relazionarsi con la piccola vigna e l’orto sinergico che per ora, da noi, fa più girasoli che pomodori e zucchini, quindi, non è molto produttivo ma esteticamente è già una meraviglia. Mentre scrivo è ancora tutto incerto e prende sempre più le forme di un possibile fallimento. Le forze nomadiche spingono alla fuga, il desiderio di ripartire verso una nuova città ed entrare in relazione con altre affezioni si ripresentano incessantemente.
All’interno della contraddizione, in un’immagine che non esiste ancora, scrivo queste parole che non sono solo parole mie, parole anche di altri, piene di incontri, letture, scorribande. Parole con cui entrare in un corpo a corpo, in una sorta di piccola battaglia tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, attraverso l’uso di concetti altrui facciamo nostra anche la visione di Michel Serres che mette in comune lo scrivere e l’arare: “l’origine della parola pagina è Pagus il nome latino per il campo in cui il contadino ara la terra. Contadino, pagus, pagina, esattamente la stessa cosa. Quando si scrive si sta arando un solco. È esattamente lo stesso lavoro”. Concludo e mi accorgo che questo tracciare parole ha portato un avvicinamento ed è proprio nell’atto della scrittura che cerco di sentire lo scrivere e l’arare come la stessa cosa, di percepire il testo come elaborazione di un agire possibile, come la creazione materiale di un piccolo solco.

Da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 02
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
Per continuare la lettura di questo e dei prossimi numeri de L’Almanacco potete scrivere a info@laterratrema.org o cercare la vostra copia in uno di questi nodi di distribuzione autogestititi dai sostenitori.

Qui puoi consultare le precedenti pubblicazioni.

Last modified: 20 Ott 2019

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