Dal sogno di Ermanno. Cantine del Castello Conti

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DAL SOGNO DI ERMANNO
di Laura M. Alemagna e Paolo Bellati

 

Di nuovo
Siamo di nuovo in viaggio, per incontrare due vignaiole conosciute a La Terra Trema.
La gioia per questa nuova opportunità è accompagnata già da qualche riflessione: quanti vignaioli bravi (donne e uomini) artefici di vini unici lavorano in ogni parte l’Italia? Coraggiosi, hanno osato, hanno salvato storie e culture millenarie, sono andati controcorrente, hanno rivoluzionato la propria vita, i modi di produzione, le economie di piccoli e grandi territori.
Quanti di loro sono distanti solo un’ora di macchina da qui, dalla provincia di Milano? Tantissimi, alcuni conosciuti da una decina di anni nel corso dei quali non si è riuscito a trovare il tempo per andare a trovarli. È imperdonabile. Bisogna darsi da fare, rimediare. Tutti. Anche voi.
Siamo in viaggio verso Paola e Elena Conti delle Cantine del Castello Conti, nell’Alto Piemonte, in provincia di Novara, a Maggiora, uno dei cinque comuni della doc Boca.
Arriveremo in un’ora di macchina, appunto.
Abbiamo incontrato Paola a Milano non troppo tempo fa. Una lunga chiacchierata e cinque, sei annate di Boca avevano fatto scattare senza sforzo la voglia di sapere di più, di andare da loro, tra vigne e cantina e di incontrare anche Elena, sul campo.
Pensavamo alle sorelle Conti con un sorriso. L’idea che l’azienda fosse ospitata in un castello dei primi anni ’60 era motivo di curiosità. Mai avevamo conosciuto delle castellane. Che persona doveva essere Ermanno, il loro papà? Cosa aveva in mente quando decise di costruire dal niente un castello in cui vivere, lavorare, custodire il proprio vino?

Il castello è grande e rosso di mattoni a vista
Sapremo della presenza ricorrente di fornaci laterizi nel territorio.
Ad accoglierci è mamma Mariuccia con la sua ironia. Paola ed Elena arrivano subito, neanche il tempo di un saluto e siamo già a bordo di una piccola jeep a inerpicarci su sentieri sterrati circondati da boschi fittissimi.
Elena va veloce, ha fretta di portarci a una vigna di mezzo ettaro in affitto che sta recuperando da tre anni, dopo decenni di abbandono.
È il vigneto più in alto dei loro. Il folto del bosco si apre all’orizzonte e lì si vedono poche altre vigne. Qui non ha mai vendemmiato, anche se avrebbe voluto. L’anno scorso le piante avevano finalmente reso dei bei grappoli ma aveva deciso di aspettare qualche giorno per raggiungere il giusto grado di maturazione. Volpi e caprioli hanno pensato di banchettare mangiando tutto in quel lasso di tempo. Esopo ne gioirebbe.
Questo campo è quasi interamente coltivato con un impianto tradizionale detto a maggiorina, un nome che designa un territorio, Maggiora.

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Elena va veloce (…)

È un metodo antico utilizzato solo in questa fascia dell’Alto Piemonte. Non ci sono i classici filari ma quadrati di circa 4 metri per lato formati da otto pali di castagno, al centro dei quadrati c’è il ceppo centrale di vite che è formato da tre piante vicinissime una all’altra. Crescendo, quando le piante diventeranno molto vecchie, sembrerà un unico ceppo centrale.Una pianta segue la parte centrale del quadrato e le altre due la parte esterna. Per vestire tutta la maggiorina sono necessari anche 8 anni.
Come metodo di allevamento della vite è in controtendenza con tutta quella letteratura, teorica e pratica, su viticoltura ed enologia moderna che vuole altissime densità di ceppi per ettaro, fusti molto bassi, un contenuto vigore vegetativo e pochi grappoli per ceppo. Lo stesso disciplinare della doc del Boca nella pratica non consente l’utilizzo dell’impianto a maggiorina perché si avrebbero meno piante per ettaro rispetto a quelle indicate di 3500 piante minimo. Con la maggiorina si arriva a poco più di 2000 piante per ettaro. Oltre al fatto che nella doc alcune varietà autoctone presenti nei vigneti storici non sono neanche contemplate.
È una questione già incontrata. Un’alta densità di ceppi per ettaro (con situazioni estreme dove si arriva anche a 10/12000) e l’aumentare della competitività tra le viti, portano ad aumentare lo sviluppo radicale in verticale del singolo ceppo e ad avere uve ricche di zuccheri e altri elementi minerali. Questo, insieme a tecniche e tecnologie di vinificazione, permette di ottenere vini complessi, spesso molto concentrati, robusti e strutturati. Parametri che sono finiti a costruire (e standardizzare) giudizi di valore, di qualità e di gusto.
Sarebbe da aprire una discussione enorme sulle forme diversissime del vino, sull’uniformità gustativa, sui degustatori accreditati, su come prende corpo un gusto soggettivo, su quali e quanti fattori determinino qualità, caratteristiche organolettiche e fisiologiche di un vino. Rimandiamo la discussione limitandoci a suggerire la lettura di un bel libro, edito in Italia nel 2011 da DeriveApprodi: Dioniso crocifisso, saggio sul gusto del vino nell’era della sua produzione industriale di Michel Le Gris.

Una storia che non doveva sparire
La maggiorina è un metodo di coltivazione unico, difficile non subirne il fascino trovandosi di fronte a queste piante, non c’è qualcosa di uguale altrove.
La sua storia è millenaria. Utilizzata già prima dei Romani, nel corso dei secoli perfezionata (l’ultima modifica fu opera di Alessandro Antonelli, architetto progettista della Mole Antonelliana originario di queste zone), è racconto di un territorio e degli abitanti che lo hanno vissuto e coltivato.
La vite è una lianacea, in natura si arrampica, tende ad allungarsi sviluppandosi per parecchi metri. Questo metodo di allevamento sembra così molto più naturale rispetto a quelli classici più diffusi. Chiede solo lavoro di mani, è impossibile affrontarlo meccanicamente. Elena racconta: “Quando lavoro qua e poi mi sposto sulle altre vigne a spalliera mi sembra di andare in fabbrica; qui hai un’altra sensazione, giri intorno, sei dentro e avvolto, là c’è il filare lungo, ripetitivo, tutto uguale, tutto lì, compresso”.
La geologia poi influisce in modo determinante sulle caratteristiche di questi vini. Non lo diresti, ma siamo in prossimità del Supervulcano del Sesia, un vulcano fossile collassato circa 280 milioni di anni fa formando una caldera enorme. I suoli sono franco-limosi, porfidi rossi, porfidi rosa (sono ben visibili le rocce rosa, rossastre ai bordi dei sentieri), aridi, con sabbie drenanti e ghiaiosi in superficie.
Le piante presenti in questo vigneto hanno quasi 100 anni.

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“(…) qui hai un’altra sensazione, giri intorno, sei dentro e avvolto (…)”.

 

Queste e quelle negli altri campi a maggiorina sono state recuperate da Elena sulla traccia di un lavoro iniziato da Christoph Künzli de Le Piane e da altri produttori. Sono ormai alcuni anni che questi coraggiosi produttori si occupano di preservare e innovare questa storia attraverso analisi e accurate selezioni. In queste maggiorine recuperate ci sono tutte le varietà autoctone e storiche del territorio: vespolina, croatina e uva rara, moscatella, malvasia a bacca bianca tipica di Boca, erbaluce, slarina, nebbiolo (detto spanna) e dolcetto di Boca, durasa, barbera.
Sono piante forti. Nel difficile 2014 gli impianti a maggiorina sono stati quelli in cui sono stati fatti minor trattamenti. Emerge chiarissimo: non può esserci un’unica direzione, un unico modo di rapportarsi con la viticoltura. Anche per gli stessi territori, anche per gli stessi vitigni.

Elena e Paola raccontano la storia di questo territorio e della loro azienda negli spostamenti tra un vigneto e l’altro. Attraversiamo bellissimi boschi di betulle, querce e castagni, nel sottobosco tantissima felce. Un tempo al posto dei boschi trovavi solo vigneti e, a puntare lo sguardo, qualcosa la intravedi tra le fronde. Le sorelle Conti ci mostreranno a pranzo alcune foto aeree degli anni ’50, tantissimi erano i campi coltivati e una geometrica esplosione di vigne prendeva il posto del groviglio verde boschivo. Nelle foto più recenti la natura ha già sommerso ogni cosa e i vigneti si sono fatti veramente sporadici.
Sono state le grandinate feroci e l’industrializzazione (rubinetteria e manifatturiera) degli anni ’50 e ’60 a spopolare la campagna e a determinare che i vigneti fossero di fatto abbandonati.
Il padre delle nostre, Ermanno, di famiglia contadina, influenzato da suo zio Pietro, commerciante di vino e sostenuto nella creazione della cantina dal padre Vincenzo, inizia nei primissimi anni settanta a produrre con la propria etichetta il Boca, riconosciuto come doc nel 1969.

Erano anni di spopolamento delle campagne ma erano anche tempi gloriosi in cui lo Spanna (il nome dato al nebbiolo nell’Alto Piemonte) faceva grandi numeri. Alcuni produttori approfittarono del boom mettendo sul mercato prodotti di bassa qualità e rovinando il nome dell’Alto Piemonte che prese il colpo di grazia finale con la brutta storia del metanolo, a metà degli anni ’80.
Ermanno tenne la posizione, era un uomo di poche parole e schietto, di princìpi e convinzioni ferree, ma anche un uomo creativo e conviviale che non ha mai smesso di sognare, “se si sogna bisogna sognare in grande” diceva, tenendo vivo il suo lato bambino, nonostante l’infanzia difficile e una vita di duro lavoro. Ha sempre creduto in un certo tipo di viticoltura, non ha mai usato il diserbo quando tutt’intorno era la normalità “meno fai, meglio è, per i tuoi vini” usava dire a Elena e andava avanti, falcetto in mano. Ha creduto fortemente nel produrre vini che si discostassero dal gusto diffuso e dalle mode, ha deciso di costruire un castello in un periodo di difficoltà economica, con gli artigiani del luogo, per conservare e difendere un vino che doveva saper invecchiare negli anni. Il castello oggi è la mappa del suo genio. Per le sorelle è un’eredità in divenire, uno scrigno di intuizioni da capire ed esaudire.
Elena, laureata in Storia dell’Arte al DAMS, ha vissuto a Milano per seguire progetti di arte contemporanea. Studiando arte e artisti qualcosa è scattato. Ha cominciato a capire il lavoro fatto negli anni dal padre. Ha compreso che l’attività del vignaiolo è molto più vicina all’arte e alla filosofia di quanto pensasse.
Decide di tornare a casa nel 2001 per lavorare in campagna. Il padre accetta il ritorno senza entusiasmo, rassegnato alla presenza di tre figlie femmine e persuaso che altrimenti in azienda non ci sarebbe stata continuità familiare.
Il primo anno per Elena è gavetta tostissima ma insiste, prende familiarità con il trattore, si occupa di trattamenti e potature. Ermanno capisce che fa sul serio.
Paola ha frequentato sociologia a Trento, è la sorella maggiore, nonostante i conflitti è rimasta sempre vicina all’attività del padre ma senza mai pensare di continuare almeno fino a quando non ritorna Elena. In quel momento attitudine e coinvolgimento, anche suoi, cambiano. La sua esperienza sarà fondamentale per la storia aziendale.
In questi anni un buon numero di giovani produttori sta facendo un gran lavoro tra vigneti e cantine. Grazie a loro questi vini sono nuovamente riconoscibili, in Italia e fuori. Sono anni di ripresa, Paola ed Elena non sono sole. Cappelle è il vigneto impiantato dal papà nel 1970. Quasi tutto nebbiolo e un po’ di vespolina e uva rara.

lecappelle

Il tipo di allevamento e il metodo di potatura adottati da Elena sono interessanti e moderni: a filari a guyot, che per ogni ceppo tiene aperti due canali orizzontali favorendone la crescita, da una parte lo sperone e dall’altro il capo a frutto, evitando potature con tagli grossi su parti di vite che hanno più di uno o due anni. I tagli grossi sono ferite che possono portare anche malattie gravi col rischio di perdere la pianta; la vite, rispetto ad altre piante, non cicatrizza facilmente, lo fa solo su tralci che hanno meno di due anni.
Da questo vigneto e da un altro, il Motto, arrivano le uve per lo straordinario Boca doc delle Cantine del Castello Conti. Di fianco alle Cappelle, più sopra, c’è un altro mezzo ettaro a maggiorina recuperato e affittato. Bellissime piante tutte legate rigorosamente col salice. Viti di 60/70 anni di nebbiolo, vespolina, uva rara, barbera e altre varietà autoctone. Dalle uve di queste piante produconoil vino rosso Origini.

Una soluzione diversa
Ci spostiamo. Verso l’ultima sfida delle sorelle Conti: l’impianto di un nuovo vigneto.
Una cosa tutt’altro che semplice perché il nuovo vigneto prenderà il posto di un bosco, dove prima c’era una vigna, prima ancora un bosco e, milioni di anni prima, un vulcano.
Impianteranno nuove piante di nebbiolo e vespolina a filare per il Boca.
Il disboscamento è in atto in questi mesi. Già a terra tronchi di alberi enormi, di 30/40 anni.
L’effetto è straniante.

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Verranno le vigne, riverranno

Intorno a Boca e a Maggiora negli anni cinquanta e sessanta erano tutte geometrie di vigne e pochissimi spicchi di bosco, poi l’abbandono delle colture ha lasciato spazio a floridi boschi, riportando questi luoghi a uno stadio simile a quello di secoli precedenti, ma già 2000 anni fa qui si coltivava la vite e si faceva il vino. Siamo colpiti. È “una soluzione diversa” ci dice Elena. A spanne enormi. Ogni vigneto, ogni campo coltivato è stato foresta, bosco, mare, palude, vulcano. Cosa sono vite e viticoltura? Da dove arrivano le piante che troviamo nei vigneti? Cosa significa selezionare varietà e cloni? Può esistere vite da seme? È tanto lontana da questo l’idea di disboscare per impiantare un vigneto? Le risposte portano tutte ad indagare i rapporti tra uomo e natura. La scelta delle sorelle Conti di espiantare un ettaro di bosco per impiantare le loro viti apre a tante riflessioni oltre all’apparente, sola e unica, contraddizione. Questa è una piccola azienda che ha deciso di fare i conti con una storia enorme e secolare. Resistere, fare agricoltura contadina recuperando e innovando, con consapevolezza, una storia familiare e metterla a confronto con una storia millenaria di pratica vitivinicola territoriale. Pioniere, da definizione. Restano le contraddizioni, ma è di certo una storia lontana dalla pratica di speculazione estrema, dall’urbanizzazione vitivinicola selvaggia che sta avvenendo in Italia (nelle valli della doc Valpolicella o nei territori della doc Prosecco ad esempio) dove l’impianto massiccio di nuovi vigneti sta facendo opera di distruzione. Le monoculture dei filari di viti cancellano biodiversità ambientale fatta di boschi, prati e altre colture. Pratiche di espianto e impianto cancellano tutto, interi ecosistemi, habitat di specie animali e vegetali autoctone, a volte anche rarissime.
Qui è diverso. Malgrado la fatica, il tempo impiegato, le sorelle Conti parlano con malcelato orgoglio di una eterogeneità costante del loro lavoro, nel via vai tra luoghi di piccole vigne, di una molteplicità di specie e varietà, di un continuo girare, guadare corsi d’acqua, abbracciare e coltivare territorio.

Nel cuore del Castello
Arriva il momento di entrare in cantina ed è subito chiaro che non è solo cantina ad accoglierci ma una nuova declinazione della storia di questo posto. Una vasca di cemento di settecento ettolitri, enorme e rossa, è diventata caveau per le annate storiche del Boca, al centro, sul soffitto, una luna di argilla di Boca dell’artista Giò Crippa. Poi ancora un’installazione di Oreste Sabadin artefice dell’etichetta del Boca doc Il Rosso delle Donne e una serie di etichette disegnate da Mauro Maulini, che ispirò e realizzò anche la bottiglia dell’Elixir (nebbiolo aromatizzato mediante infusione a freddo in soluzione idroalcolica di vari aromi).
Le opere di artisti contemporanei esposte alla Cantina Conti sono tantissime.
Surreale, bello. La grande vasca, il museo, la galleria d’arte, un luogo di cultura, di piacere, di lavoro.
Assaggiamo in cantina il vino dalle botti: Origini 2015. Un bel vino che si fa bere bene e sembra addirittura pronto. Saggeremo anche il 2014 in bottiglia, un vino interessante nonostante l’annata difficile, con buona mineralità, speziato. Origini viene vinificato in acciaio e affinato in parte in acciaio e in parte in botti grandi.
Il Colline Novaresi Nebbiolo doc Flores 2015 senza aggiunta di solforosa, molto interessante, ha caratteri di apertura che si discostano dal nebbiolo tradizionale Colline Novaresi doc. Anche lui è giovane ma si fa bere bene. Un anno di legno e finirà in bottiglia. Il Colline Novaresi Nebbiolo doc coi solfiti fa sei mesi in più. Vini che presi dalle botti sembrano quasi pronti, finito l’affinamento potranno rimanere in bottiglia per anni.
Il Boca doc 2015, fermentazione in vasche di acciaio senza aggiunta di lieviti selezionati, macerazione che dura circa un mese e affinamento di almeno tre anni (il disciplinare ne chiede almeno due) in gran parte in botti di legno di rovere di Slavonia (alcune che hanno cinque anni e altre anche di più) e in parte minore in barrique usate. Si sentono proprio diversità e potenzialità, un vino che ha bisogno di tempo per esprimersi al meglio. Tornano alla mente le annate assaggiate una in fila all’altra 2005, 2007, 2009 e 2010. Colore rosso rubino, granata. Profumi complessi, fiori, spezie e tabacco. Vini piacevoli, eleganti, fini, dalla buona beva, ma strutturati e con carattere. Gioielli dell’enologia piemontese frutti di un territorio unico e del lavoro delle matte, l’aggettivo che più si sentono appellare le sorelle del castello di Maggiora: le matte.
Concordiamo amorevolmente.

La Terra Trema
È uno di quei posti che ci fa sentire parte di un movimento, dove incontri produttori simili a noi, che sono colleghi, ma anche amici con cui condividere e confrontarsi, dove trovi un pubblico attento e formato e dove è bellissimo incontrare dei giovani che hanno un’idea di vino e di agricoltura che vedi che si è formata lì dentro. Grazie a questi incontri e a questi spazi fisici e temporali abbiamo trovato la nostra dimensione che ha dato senso al nostro lavoro e ci ha dato rinnovata forza per continuare“.

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DAL SOGNO DI ERMANNO
di Laura M. Alemagna e Paolo Bellati
fotografie di Laura M. Alemagna

da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 01
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
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Last modified: 2 Mar 2023

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