A cura di LA TERRA TREMA, CASCINA CAREMMA, CASCINA SELVA
In questi mesi, abbiamo elaborato più volte analisi approfondite sulla questione Cracco all’Annunziata di Abbiategrasso, in provincia di Milano. Questione sfaccettata, zeppa di casi che spiegano bene le derive e lo stato delle cose per ciò che è ormai considerato da molti un modello, un brand, un format vincente: lo chef pluri-stellato, il giudice padreterno, con le braccia incrociate e le cucine al soldo di televisione e telepromozione.
Partiamo dall’inizio: La questione si snocciola anzitutto su entità totemiche. Da una parte Carlo Cracco (Maestro Martino, Ambasciata del Gusto, Good Food in Good Expo, Milano Gourmet Experience, Freedot e ancora patatine, bibite per aperitivi, pentole e fornelli da sponsorizzare o che si sponsorizzano da soli); Dall’altra una cittadina che si accorge di invecchiare inesorabilmente, che sente difficile stare al passo coi tempi, che rischia di perdere ghiotte occasioni. Come succede certe volte, l’unica possibilità per dare nuovo lustro e visibilità si cerca nel lifting antiage, nel ritocco, nel camouflage estetico. L’operazione Carlo Cracco cadeva a pennello.
All’inizio doveva esserci valorizzazione del territorio, valorizzazione di cultura, di lavoro di uomini e donne. Certo, sulla carta sembrava funzionare. Chef di successo, cucina argomento mainstream, spettacolarizzazione assicurata, eventi da diffondere sui social network, effetto Expo2015, eccetera eccetera eccetera.
Qualcosa s’inceppa però. Insomma, non va tutto liscio. Ovviamente il grande chef non si fa pregare, ma la location la vuole gratis, pagherebbe solo le utenze saltuarie. Il bel convento, la sua storia (che tra sacro e profano varrebbe un film), la costosa ristrutturazione, la sua connotazione di bene pubblico poco valgono di fronte all’onore di ospitare il sommo giudice e masterchef. “Ciula” chi si tira indietro è, appunto, il giudizio.
Così ha inizio. Cartella stampa? Patatine fritte, le rustiche a marchio registrato, e conserva del territorio. Le prime appena uscite dall’illustre fabbrica – “A oggi sono 100 le tonnellate di patatine prodotte ogni giorno“, l’altra dalla bottega di un piccolo produttore locale. Il confronto lascia basiti. Le braccia cadono. Perché?
Perché il sapore in bocca è già di cultura formattata, standardizzata a suon di sponsor, di greenwashing per le aziende della grande distribuzione organizzata.
La sensazione di sentirsi chiamati a lavorare per loro, per la grande distribuzione, per quella fila di patatine, per lo scaffale delle birre, per il settore aperitivi, per la pasta industriale, il sugo già pronto, il pollo impanato: Siamo noi gli attori e le attrici dello spot. Nostro malgrado.
Gli eventi che seguono hanno quella formula, quel format televisivo. Sponsor che c’è e si vede. Che ci sia pubblico è quasi indifferente.
La cultura materiale del cibo e del cucinare ne esce a brandelli.
Assaggi, porzioni, bocconi. Il tempo veloce di uno scatto, un fotogramma. Niente di più. È lo Show Cooking, bellezza.
Quanto è costato tutto questo? Lasciamo stare i costi vivi, la moneta sonante.
Al territorio è costato moltissimo. Un passo indietro grande. Un tuffo nel passato, a quando si pensava che la grande distribuzione fosse la soluzione per ogni male.
Tanti saluti al contadino e all’agricoltore, alle loro storie, al senso pratico e intrinseco del loro lavoro, alla conoscenza. Benvenuta dannatissima società di comunicazione, con le tue richieste irragionevoli (grana padano fresco in forme buone per il single come solo la GDO insegna e può fare; farine grezze che mal si adattano ai ricettari 2.0 eccetera). Tanti saluti alla sapienza contadina, ora bisogna darsi da fare, c’è la filosofia aziendale, la mission, la location. Questo può insegnarci, nel 2015, l’entourage del Masterchef. D’un tratto cibarsi diventa atto passivo, consumato attraverso uno schermo, sia televisione, tablet o smartphone, ventiquattr’ore su ventiquattro. Fotografie, clic, partecipo all’evento o forse parteciperò. Ed essere o non essere non è più il problema.
Nei sogni di chi ha provato a metterci il naso c’era una scuola di alta cucina, un’ipotesi di futuro su cui investire in sinergia con l’amministrazione locale, partecipazione attiva di una nuova generazione di contadini e contadine. Invece è stato silenzio, scarsa attenzione, nulla da insegnare, pentole gentilmente offerte, fornelli in vendita, le solite patatine. Non una scuola, né le sinergie, la partecipazione come nemmeno nel più ingenuo dei sogni ci puoi credere. Qualche fornitura dovuta, pagata o no a suon di “è tutta pubblicità”.
Non ci piaceva prima, non ci piace ancora. È il modello reality, ne resterà soltanto uno, quello che non si tira indietro, pelo nello stomaco, poca memoria storica. Al mutualismo contadino, alla reciprocità con le reti del territorio, un ossequioso, bisbigliato: Buonanotte.
A kind of magic in cambio.
Qui a La Terra Trema negli anni abbiamo percorso per l’agricoltura (e la cucina, anche quella alta) strade diverse, nelle quali l’agricoltura non è stata silenziosa serva al servizio del buon signore ma protagonista attiva, indispensabile forza intellettuale e materiale con cui confrontarsi. Quotidianamente dentro il territorio, le sue virtù e le sue problematiche. Carne viva che si mette in gioco di persona, volto rugoso, pellaccia dura, certo non un sorriso ammiccante o sguardo languido su manifesti personalizzati in PVC o su furgoni in transito veloce.
Negli anni abbiamo intrapreso intorno al cibo e alla sua produzione relazioni, floride collaborazioni, sinergie splendide, autonome, indipendenti. Indipendenti e autonome anche dalla ragione del marketing. Indipendenti e autonome hanno innescato economie vigorose, solide, continuative, aperte a una cittadinanza ampia, lontana da cerchie strette ed elitarie, lontana dal culto del singolo, dalla promozione di sponsor enormi (è bene ribadirlo).
In questo agire collettivo e condiviso abbiamo ammirato dunque un fiorire rigoglioso fatto di contadine, contadini, ristoratori e ristoratrici; un ragionamento costruttivo e costante in merito alle agricolture di domani (tra salvaguardia del territorio, cultura, lavoro), sulle cucine nuove, i costi, sulla concreta accessibilità alle cucine di qualità, su chi impiatterà prelibatezze e su chi laverà quei piatti.
Guardare alle circostanze che hanno portato Carlo Cracco ad Abbiategrasso, guardarci e analizzarle con decennale esperienza sul campo, significa spiegarsi equazioni altre ad ampio spettro, che vanno dalle politiche territoriali locali ai grandi numeri nazionali. Come quelli del grande bluff, buonista e retorico, di Expo2015, per esempio. Equazioni che hanno spianato la strada ancora una volta a una modalità produttiva enorme, industriale e intensiva che porta a uno sviluppo fuori di logica, di calcestruzzo e sfruttamento.
Entità economiche enormi che subordinano a se stesse il territorio, prevaricano il bene comune, sussumono sapienze e sapere, cultura e terra fertile. E che sulla terra su cui si radicano lasciano poco o niente.
Quanto scritto è il risultato di un confronto avvenuto in questi mesi con le aziende agricole del territorio, il frutto di una decennale collaborazione.
A questi link le elaborazioni dei produttori in questione.
Considerazioni, riflessioni di Cascina Caremma
Considerazioni, riflessioni di Cascina Selva
Last modified: 20 Ott 2019
Che dire? un po’ di rabbia e tanta tristezza! Non lasciamoci ancora una volta rubare i nostri sogni, RESISTIAMO!!!
Un grande abbraccio a tutti
Corinna