“Gli uomini mangiavano ciò che non avevano coltivato, non avevano legami con il loro pane. La terra partoriva sotto il ferro, e sotto il ferro a poco a poco moriva, perché non era stata amata né odiata, non aveva attratto preghiere né maledizioni”.
J. Steinbeck
Per fare tutto ci vuole un seme. O meglio, tanti semi. Biodiversi, accessibili e riproducibili.
Questa puntata di Mangiamoci Expo vogliamo dedicarla proprio a loro, le sementi. Perché se è vero che parliamo tanto di grandi opere, di cementificazione del territorio, di inquinamento e di consumo di suolo, è anche vero che dell’impatto ambientale, sociale e culturale dell’agricoltura industriale – responsabile del 40% delle emissioni di gas serra – si discute troppo poco.
Eppure, tutto parte dall’agricoltura: l’accesso alle risorse alimentari, la difesa della terra, dell’acqua e della biodiversità, la sostenibilità del sistema produttivo. E anche la resistenza dei piccoli contadini ai monopoli e alle monocolture delle multinazionali agro-biotech.
Partiamo facendo qualche numero. Il 60% dell’energia alimentare del pianeta è concentrata in quattro specie vegetali (mais, riso, grano e patate) e secondo la Fao tra il 1900 e il 2000 circa il 75% della biodiversità agricola è andata persa a favore delle monocolture.
Intanto, mentre uno sfruttamento improprio della terra erode il suolo a un ritmo da 10 a 40 volte superiore a quello necessario per la sua formazione, la monotonia dell’agricoltura industriale, che condanna la terra alla sterilità risucchiandone i nutrienti, riducendone la capacità di trattenere acqua e avvelenandola con pesticidi, si rafforza tramite i brevetti. Ad oggi, le specie vegetali brevettate sono circa 2400 e il 50% del mercato delle sementi di tutto il mondo è controllato da tre aziende: Monsanto (che da sola ne detiene il 22%), DuPont e Sygenta.
Se negli Stati Uniti – dove tra il 2004 e il 2008, sono stati concessi circa 1789 brevetti su piante, di cui 640 alla Monsanto (36% de totale) e 516 alla DuPont/Pioneer (29%) – il controllo dei semi da parte dei colossi dediti alle monocolture è particolarmente evidente, anche l’Europa, il terzo mercato sementiero al mondo, ha ben poco da stare tranquilla. Basti pensare che, secondo una relazione dei Verdi al Parlamento Europeo del 2013, il 75% del mercato del mais e il 95% del mercato delle ortive sono concentrati nelle mani di sole cinque industrie.
Ma c’è dell’altro. Perché il tema dei semi non si può esaurire in cifre. Per questo, per provare ad affrontare a 360° una questione che è prima di tutto culturale, sociale e politica, abbiamo deciso di fare due chiacchiere con uno che ai semi ha dedicato la propria vita, Teodoro Margarita, di Civiltà Contadina. Lo abbiamo incontrato al Leoncavallo in occasione della manifestazione Seed Vicious – Semi di Resistenza.
Ciao Teodoro, prima di tutto ci racconti chi sei e cosa fa Civiltà Contadina?
Chi sono, dove sono, dove vado… Ti piace Battiato?
Molto… Quindi?
Nel 2001 nella zona dell’erbese è nato un primo gruppo locale di persone che con regolarità hanno iniziato ad incontrarsi, organizzare conferenze, scambiarsi semi, darsi una mano negli orti… Via via sono poi nati altri gruppi nella bergamasca, in Veneto, in Friuli, in Trentino Alto Adige. E oggi anche in Abruzzo, Marche. Diciamo che la Lombardia rimane il nostro punto di forza, perché in particolare con la città di Milano abbiamo una relazione che dura ormai da oltre un decennio e che coinvolge ortisti e percorsi come quelli di guerriglia gardening. Quello che vogliamo è che la gente invece che andare a comprare i semi al consorzio o chissà dove, li scambi e impari ad autoriprodurli. E di recente abbiamo anche pubblicato un manuale “Salvare i semi dell’orto e la biodiversità”.
Ci incontriamo qui, al Leoncavallo, a Seed Vicious – Semi di Resistenza. Cosa c’entrano i semi con la resistenza?
Vista la sempre crescente espropriazione di semi da parte delle multinazionali che commerciano sementi, cercare dei semi “buoni” anche soltanto per un balcone o per un piccolo orto, scegliere semi sicuri, riproducibili, che provengono da uno scambio e da una condivisione, con una storia e un’identità, è di per sé un atto di resistenza.
Quello che noi cerchiamo di fare è di alimentare un circuito virtuoso di persone che fanno semi ricavandoli dalla tradizione contadina. Per questo i semi buoni li do a tutti, dalla sciura milanese agli scout, dalla comunità di migranti agli oratori. Perché la questione dei semi è vitale e non si può tollerare che la gente semini piante che richiedono ad esempio l’uso di pesticidi, uccidendo l’humus e la vita stessa. Più semi buoni ci sono e meglio è.
Quali sono i semi buoni?
Intanto diciamo subito che gli Ogm che sono stati pensati per schiavizzare il contadino sono semi cattivi. Gli Ogm sono venduti dalle multinazionali in un kit, nel quale insieme al seme sono messi in vendita anche pesticidi e concimi. Ad esempio, il mais Ogm ha un apparato radicale che non affonda bene nella terra, che non è capace di andare a cercarsi da solo l’acqua e le sostanze nutritive, ed è quindi un seme che ha bisogno di assistenza. È un mostro…
Al contrario i semi antichi, che provengono dalla tradizione, quelli che chiamo “buoni”, sono semi che si fanno un mazzo tanto, che vanno a cercarsi l’acqua, che interagiscono con gli organismi simbionti nel terreno e con gli insetti, gli animali… Il mio mais fai fatica a sradicarlo, mentre quello Ogm se lo tiri è facilissimo estirparlo.
Per questo mettere in giro buoni semi, per la nostra autonomia a per l’autonomia dei popoli è importante. Per questo abbiamo mandato dei semi anche a Kobane e per questo lavoriamo perché nascano nuovi orti conservativi. Quindi, sì fare l’orto è un atto di resistenza e di costanza. È una cosa meravigliosa perché tu intorno all’orto condiviso ci puoi costruire aggregazione, scambio, affetti e relazioni. Ed è anche un discorso politico, che ti permette di dare autonomia alle comunità, ai piccoli gruppi organizzati, ai singoli… E per questo è importante che i semi buoni circolino e siano liberi.
Come descriveresti oggi il mercato dei semi?
Ci sono tre o quattro multinazionali che si dividono la torta… E i contadini di tutto il mondo sono schiavi e sono costretti a comprare i loro semi e a fare agricoltura industriale, che uccide la terra, richiede tantissima acqua, richiede pesticidi e ammazza la biodiversità e le comunità. Uccide. L’agricoltura di oggi, che è quella nata con la rivoluzione degli anni ’30, è quella che lascia il Brasile senza acqua. A San Paolo, ad esempio, non c’è acqua perché le monocolture del caffè che stanno a monte si succhiano tutta l’acqua. Se al posto di quelle monocolture ci fossero coltivazioni di caffè biologico, alternate, questo non succederebbe. L’agricoltura biologica, sinergica, biodinamica, consuma molto meno dell’agricoltura industriale e lascia il terreno vivo.
E se è vero che le rese sono più alte, tutto quello che pensi di guadagnare, lo paghi con un consumo stratosferico di acqua, di combustibili fossili, di suolo… Già negli anni ’30 le tempeste di sabbia che colpivano le monocolture si portavano via tutto, anche il suolo. Perché per fissare l’humus ci vuole alternanza delle colture e il suolo lo mantieni se coltivi in maniera intelligente.
Ci spieghi meglio che legame c’è tra l’agricoltura e il consumo di suolo? E perché è importante la biodiversità?
Nell’antichità, nella mezzaluna fertile, l’idea di coltivare una sola varietà non era concepibile, perché ogni varietà ha caratteristiche diverse e si adatta a condizioni diverse. Così, un grano serviva per l’estate secca, uno per quella umida e un altro perché fissava bene il suolo in caso di forte vento. Madre natura non conosce la monocoltura, basti pensare che l’ecosistema che tiene in piedi il sistema terra è la foresta equatoriale, conosciuta per un concentrato di biodiversità pazzesco e che da sola genera l’80% della pioggia. Semplicemente respirando. Mentre la monocoltura crea il deserto. Per questo nel mio orto trovi 50/60 varietà di piante officinali, 3/4 varietà di mais e 5/6 di fagioli e pomodori.
Come si fa ad appellarsi alla tradizione senza rinunciare a innovare?
Beh, se parliamo di agricoltura, prima di tutto va detto che non siamo uomini primitivi. Facciamo agricoltura sulla Terra da circa 18 mila anni e sappiamo come si sono evolute le tecniche agricole. Oggi dobbiamo cercare di trovare il modo di impattare il meno possibile con la tecnologia moderna e di conciliare questo con il massimo livello di biologicità, sinergia e permacoltura. Se tu hai 10 ettari di terreno, evidentemente non li puoi zappare a mano. Soprattutto se sei da solo, il trattore ci vuole… Gli antichi romani aggiogavano direttamente gli esseri umani, ma direi che non è il caso di arrivare a quello…
La differenza però sta nel come lo usi il trattore. Se con delle curve dei campi, se alternando le rotazioni, se mettendo tante varietà diverse, non coltivando sempre grano ma mettendo un anno grano un anno leguminose un anno niente per fare riposare il terreno. La biodinamica di Steiner è nata negli anni ’20 e oggi in diversi paesi, ad esempio in Germania, è inserita in numerosi studi universitari. La biodinamica ad esempio affonda le sue radici nell’antichità, ma tante cose le abbiamo capite solo adesso con la scienza. Ad esempio il lavoro misterioso che fanno i milioni di batteri che stanno nel suolo. Non sono cose da stregoni.
Già che ci siamo, ci sai dire qualcosa del grano che è stato seminato qui a Milano tra i Grattacieli di vicino alla Stazione Garibaldi?
A Porta Nuova è stato seminato un grano Syngenta, varietà Odisseo. Si tratta di un grano ibrido, un grano ottenuto negli ultimi anni. Penso si tratti di un’operazione di green washing, di un vernissage ecologico, seminando del grano industriale, di una varietà moderna, mentre si sarebbe potuto benissimo optare per una varietà antica. Quello seminato è un grano che impone una visione industriale dell’agricoltura, in piena Milano. La questione vera non sono i sacchetti di plastica non maneggiabili dai bambini. Il problema vero sta nella scelta di seminare grano Syngenta quando ci sono degli ottimi grani locali. Come il Gentil Rosso o il Saragolla. È una prese in giro, così come Expo, che di verde non ha niente. Basti pensare alla presenza di multinazionali, che si fondano sull’agricoltura industriale, che asciugano i pozzi, che sono legate al fenomeno del land grabbing nel terzo mondo… Per questo la lotta all’Expo è la lotta per i semi, contro le multinazionali, la lotta dei piccoli contro i grandi. Ma dobbiamo fare rete…
A che punto è la rete delle associazioni che tutelano la biodiversità agricola attraverso lo scambio di semi?
La rete dei salvatori di semi in Europa è forte. Soprattutto in Francia, Svizzera, Germania, Austria e Portogallo. Ma ci sono un sacco di movimenti anche in India, Statu Uniti, Australia, Inghilterra, Irlanda… La rete esiste, ma bisogna anche intervenire a livello culturale. Bisogna che i giovani, come te ad esempio, capiscano che quando mettono le mani nella terra fanno un atto grande. È un discorso politico, ma anche spirituale. Non lo fai solo per te, lo fai per condividere, per essere solidale. Ti riprendi la tua vita, il tuo ciclo. Non è un caso che sono le donne le contadine della Terra. L’80% delle donne coltiva nei campi di questo pianeta. L’agricoltura è sulle spalle delle donne e se qualcosa si è salvato è grazie alle donne. Sto parlando a te, Anna, ripigliarsi la terra è come riprendersi il parto e a questo il movimento femminista ci dovrebbe pensare. Io sono un uomo ma non me ne importa niente, per me la terra è madre. Non dimentichiamoci che la parola materia viene da mater che significa madre. Le cose sono connesse. Lo spirituale è nel materiale, il microcosmo è nel macrocosmo, e viceversa. È un discorso pesante, potente, che mi fa vivere da 13 anni. E che fa vivere tutte le persone che conosco che coltivano che lasciano dei figli sulla terra.
Quello dei giovani che tornano alla terra in Italia è un fenomeno abbastanza diffuso…
Le fasce di giovani ragazze e ragazzi delle metropoli che si avvicinano all’orto e che lo fanno in questa ottica di condivisione sono sempre più vaste. Io sono sincero, quando faccio l’orto non voglio essere disturbato, però quando uno me lo annuncia e viene da Milano, io lo ringrazio… Do tutto, regalo le piante… Perché bisogna incoraggiare la gente che coltiva. Perché questo dei semi degli orti è l’ultimo dei movimenti. Che si ricollega al movimento ecologista, ma non quello parolaio. Noi che facciamo gli orti mettiamo le mani nella terra. Pensa a Luca Abbà in Val di Susa. Ogni terra che viene sottratta a un mio fratello contadino, è sottratta a me. Il contadino paga lo scotto di tutte le guerre e di tutti gli sfruttamenti. Non c’è libertà senza terra e non c’è terra senza libertà.
Di Anna Pellizone per MilanoinMovimento
Leggi le altre puntate!
Last modified: 20 Ott 2019