La Terra Trema anno 2014 invita a scrivere a dieci anni dalla morte di Luigi Veronelli ch’accadde il 29 Novembre 2004. È un invito aperto a chiunque abbia desiderio di mandare il proprio contributo (a info@laterratrema.org nel caso si voglia).
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Fare a pezzi un discorso
A Gino Veronelli non sarebbe piaciuto essere commemorato. Lo diceva spesso che avrebbe voluto che fossero le sue idee, non la sua persona, a rimanere attive nel ricordo, e soprattutto nelle pratiche quotidiane. Lo diceva riferendosi a Benedetto Croce, che altrettanto spesso citava, a sproposito, forzandolo a sé, come maestro del pensiero anarchico.
Nemmeno a chi pensò, collettivizzò e diede vita al movimento t/Terra e libertà/critical wine, a cui Veronelli prese parte attiva e propositiva negli ultimi anni della sua vita, sarebbe piaciuto e piacerebbe entrare nel dispositivo reazionario del ricordo.
Le parole d’ordine di quel movimento nuovo e dirompente nel mondo del vino, se mai ce ne sono state, erano provocazione e sobillazione.
L’interesse per il cibo, il vino e tutta la cultura materiale, che generò tale movimento, era semplicemente una scusa.
Alle compagne ed ai compagni che cominciarono a discuterne insieme non interessava immergersi in una folta schiera, oggi ancora più affollata e miseranda, di parlatori e ciarlatani che andavano (e vanno) cianciando sul buon salame della tradizione antica, sulla cipolla garantita da avamposti di tutela, su formaggi sopraffini affinati in grotte neolitiche e venduti a 80 euro il chilo. O che gareggiano con le pignatte dentro, per dirla con Veronelli, mammativvù. Il discorso intorno a una materia prima o a un prodotto trasformato dall’uomo, che gira vorticosamente su se stesso e su se stesso si avviluppa arrivando a soffocare ogni significante, e ogni sua possibile connessione con il mondo, è merdre gastronimique. E’ scarto semiologico. E’ assopimento sociale.
t/Terra e libertà/critical wine lo ha fatto a pezzi. Ha scardinato i confini del buono, sfondando le porte delle filiere produttive. Luigi Veronelli era in prima linea, scansando i numerosi nasi storti di chi diceva fosse uscito di senno, a mettersi coi pezzenti dei centri sociali. Era il 2001. Nessuno o quasi utilizzava la parola filiera. Indagare le filiere, in ogni loro aspetto è uno strumento di libertà, si diceva. Si parte dalla terra, da come viene lavorata, con quali strumenti ed ausili, con quali concessioni all’agrochimica o all’ingegneria genetica (e ai loro lugubri custodi e accumulatori d’argent). Si passa poi alle trasformazioni, indagate in ogni loro singolo aspetto. Si arriva al lavoro e, infine, al prezzo e al meccanismo di offerta che porta al consumo.Tutti questi aspetti devono stare assieme per descrivere sinteticamente ed analiticamente la filiera. Tutti, fino a giungere al prezzo, il più ostico da denudare. Nessuno può e deve restare escluso, pena l’irrealizzabilità della filiera trasparente e, quindi, lo svuotamento di una sua sostanziale utilità per il produttore ed il consumatore che intendano scegliere una via virtuosa, ossia una filiera che realizzi l’amore totale per il buono: ambiente, terra, lavorazioni, persone, prezzo.
Il libro manifesto del movimento t/Terra e libertà/critical wine, edito da DeriveApprodi nel 2004 (Sensibilità planetaria, agricoltura contadina e rivoluzione dei consumi, il sottotitolo) e le pratiche che lo accompagnarono, nonché i numerosi interventi pubblici di Veronelli, dicevano tutto questo. E molto di più.
Il cibo, il vino e tutti i prodotti della terra o della trasformazione agivano in un unico scenario in cui gli attori, con la stessa responsabilità e lo stesso piacere di esserci, erano i produttori e i consumatori, uniti dalla scelta per la filiera totalmente trasparente. Ecco perché venne coniato il termine co-produttori ad indicare una linea di fuga da ruoli imposti dall’incorruttibile economia di mercato. Tagliare le intermediazioni per diventare co-produttori. La filiera diretta è la seconda intuizione geniale del movimento, realizzata da subito con gli eventi dedicati ai vignaioli e alle produzioni alimentari (Verona, Brescia, Milano, Genova, Sarzana, Venezia, Torino, Monopoli, Lario, Jesi…) e con i mercati autogestiti da produttori e consumatori, ovvero co-produttori, che avvengono in molti centri sociali e piazze della penisola.
E che ancora oggi in molti di questi luoghi continuano ad esserci, vivi e frequentati. La sperimentazione macchinica del movimento cadde sui centri sociali, che esprimevano anche le persone che il movimento felicemente animavano. Spazi franchi da cui gettare nelle realtà urbane una formula (ormai) sconosciuta: i mercati autogestiti. Da non confondersi con i blandi mercati della terra (e dintorni) che copiosi seguirono, spesso basati sull’apparato istituzionale e sulle logiche di controllo di certificazioni, appartenenze, etichette a garantirne eterologamente la «qualità».
«Qualità» era uno dei termini di cui t/Tl/cw si fece acerrimo nemico poiché totalmente svuotato di ogni senso e foglia di fico dell’industria alimentare e della sua rete di distribuzione e promozione.
Piuttosto si parlava di bontà, unita a libertà ed autogestione, che andavano di pari passo con trasparenza totale (la filiera) e autocertificazione ovvero, e qui Luigi Veronelli era in primissima fila, con «l’atto di responsabilità individuale» di ogni produttore che dichiarasse apertamente le sue pratiche agricole e/o produttive. Nacquero le schede di autocertificazione, strumento semplice per mettere in contatto diretto produzione e consumo, anche in assenza fisica del produttore. Lo strumento ebbe successo ed è oggi ancora utilizzato in molte realtà che in mille differenti rivoli hanno moltiplicato ed evoluto le esperienze di t/Tl/Cw.
Strumento provocatorio, la scheda, che denuncia la certificazione tradizionale ed i suoi rischi. Molti obiettarono che fosse inabile a stare sul mercato poiché inadatta alle logiche di import-export o di grande distribuzione. Obiezione insensata: la dimensione delle produzioni coinvolte non prevedeva, per costituzione e per scelta, una vendita spersonalizzata e sconfinata. Anche i sassi sanno che le certificazioni servono prevalentemente ai grandi gruppi, per cui è impossibile gestire ogni informazione e contatto con chi acquista, se non in forma di marketing. Non è piccolo è bello contro la mostruosità del grande. Sono semplicemente due differenti esistenze, due opposti approcci ontologici alla t/Terra e alle relazioni che essa genera e contiene.
C’è chi dice, da qualche anno, che oggi questi temi non siano più attuali poiché c’è stato chi ne ha svuotato la potenza disarmante, disinnescandoli. Forse è così.
E’ certamente vero che t/Tl/cw si sciolse in una accesa assemblea di tutte le realtà che ne fecero parte. Atto terribile, per alcuni, ma sanificante poiché ha generato immunità da ogni apologia possibile.
Eppure pensare di consegnare questa cultura materiale e sua cassetta degli attrezzi ad altre mani ed anche a potenti organizzazioni soltanto perché ne utilizzano, oggi ed ampiamente, spunti e lessico, sarebbe un atto doppiamente mortifero.
Veronelli sosteneva che è centrale, sempre, festeggiare la vita. E, citando Charles Fourier, diceva anche che la felicità, unica meta massima concepibile di ogni individuo e di ogni società, andava pensata non tanto affidandosi alle calcolate pratiche analitiche, pur importanti, quanto piuttosto all’aperta immaginazione.
Il patrimonio immaginativo e la dirompenza di t/Tl/cw sono morti con la sua fine?
Luigi Veronelli ha sepolto con le sue ceneri le sue idee di una gastronomia liberata?
Ci restano soltanto inerti ricordi?
Negli ultimi eventi veronesi t/Tl/Cw aveva trasformato il proprio nome in Terre ribelli/Critical wine. Ribellione. Rivolta. Parole via via sempre più impronunciabili e impresentabili. Eppure in grado di divenire pratiche dirompenti, oggi più di ieri. Non le rivolte di sparuti gruppi autoreferenziali. Ribellarsi è altro. E’ in ogni atto quotidiano, in ogni parola scambiata con chiunque. E’ nella ricerca di nuove parole e nuovo senso per una gastronomia che non può essere lasciata in mano a chi ne sta dilapidando meticolosamente ogni connessione alla comunità, al piacere sociale.
Non è vero che cibo e vino vanno abbandonati perchè sono temi ormai infruttuosi per il mutamento. La tavola va riapparecchiata oggi. A beneficio comunitario Va riapparecchiata non ricordando il passato e utilizzando le stoviglie della nonna divenute trendy. In tavola oggi ci va una veronelliana (da Veronelli, oltre Veronelli) cassetta degli attrezzi che può servire ad una sola cosa: nuovo utilizzo e nuove dirompenze enogastroniche. E che siano magari brutte, sporche e cattive. Purché vadano dappertutto. E dimostrino che la tavola apparecchiata è, materialmente, bene comune. Miccia. Innesco. Futuro.
Simonetta Lorigliola
Per A Rivista e per noi.
Last modified: 10 Ott 2024
Luigi Veronelli, nel corso della sua carriera di “divulgatore”, (non solo nel campo enogastronomico, ma culturale ad ampio spettro), ha anche ideato una bella rivista, che aveva chiamato: “L’Etichetta”, purtroppo da tempo non più in edicola.
L’ho anche incrociato da vicino, anche se per pochi momenti una sera di settembre 2003, ad una cena notturna, imbandita per ricordare Gianni Brera. In un ristorante all’estrema periferia ovest della provincia di Piacenza, il Casa Bella di Ziano, dove numerosi SenzaBrera, hanno avuto la fortuna di ascoltare una nutrita schiera di amici, del Giuanbrerafucarlo, rievocarlo con passione, sia dal punto di vista della sua vocazione-professione; quella di uomo di lettere, sia dal punto di vista squisitamente umano. Veronelli doveva essere fra i protagonisti della serata, ma riuscì solo a fare un fugace atto di presenza.
Mi ricapitò in quella occasione tra le mani, il primo numero della rivista figlia del suo umile genio non a caso amico di Giuan. L’etichetta, ha vissuto sotto la guida di Veronelli, poco più di un decennio, dall’autunno 1983, all’estate 1994. Sul numero 1, Brera ha scritto da par suo, dello Scopone; “un gran gioco di carte fondato sul calcolo e sulla fortuna..”. Ma quel pezzo, Brera lo chiudeva sostenendo che se si è stanchi è meglio….
“entrare in una partita a brischetta, che in Lombardia si chiama anche briscola chiamata, gioco del due, bellora e rabbiosa. ….Un giorno o l’altro ci voglio scrivere su un trattato: non in latino, certo, bensì in dialetto lombardo.”
Concludeva così, con questo annuncio, il suo scritto. Chissà se poi l’ha scritto, quel trattato, Giuanbrerafucarlo; trovarlo per un ConBrera, sarebbe davvero una gioiosa scoperta.
Della rivista L’Etichetta, possiedo l’intera raccolta, ed il piacere di sfogliare ogni tanto i suoi numeri, non si esaurisce con il passare del tempo.
Per dare un’idea dello stesso, propongo qui di seguito la trascrizione dell’ultimo editoriale dell’enofilosofo più brillante e rivoluzionario che l’Italia del dopoguerra abbia conosciuto.
«Nell’ultimo numero di Il Consenso, marzo 1994, trimestrale del Seminario Permanente che porta il mio nome, Mario Fregoni illustre professore enologo, già presidente del Comitato per le D.O.C. e, di ben maggior valore dell’Office International du Vin, muove una duplice accusa ai politici, sia italiani sia europei, che presiedono alle sorti del vino. Cito testuale: « … accettano solo le pratiche enologiche più diffuse ed economicamente più forti e colme di interessi industriali e dimenticano il progresso scientifico e tecnologico».
L’accusa è duplice: ignoranza e corruzione. Va da sé: le condivido appieno.
Uno dei miei racconti mai scritti è sulla merda che, per un intervento ineludibile, anziché sfarsi, cresce, all’infinito, indistruttibile, ed occupa l’orbe terracqueo.
Mi torna in mente, va da sé, quasi ovunque; mai così sgradevolmente come ora che leggo sul mio quotidiano, la Repubblica, un articolo d’inaudibile violenza contro i vignaioli. È stato pubblicato il 20 maggio, venerdì, con titolo «A Bruxelles una lotta per la vite» e sottotitolo «Vino, l’UE vuole togliere all’Italia la leadership. Nei campi è rivolta». Autore: tale Carlo Gambi. Un intero relazionificio dei padroni del vapore non avrebbe saputo scrivere meglio a vantaggio delle produzioni industriali, ottenute con gli arricchimenti artificiali di quanto si ottiene nelle vigne.
A Bruxelles – mentre scrivo, 29 maggio – politici famelici stanno discutendo, divisi in due blocchi, uno a favore del mosto concentrato rettificato, l’altro a favore del saccarosio. Gli uni difendono le prebende che arrivano dagli industriali dello zucchero, gli altri le tangenziali dei produttori di mosto concentrato rettificato. Gli uni e gli altri contro gli interessi dei veri vignaioli che vogliono produrre con le sole uve delle proprie vigne. Il 29 maggio 1994 nessuno che, anche minimamente, se n’intenda può ignorare che ciò può essere fatto con buoni risultati anche nelle annate più difficili con l’adozione di una tecnica nuova, di difficile nome e di facile uso: l’evaporazione osmotica.
La si ottiene concentrando, con processi solamente fisici e non violenti, i mosti per semplice eliminazione di parte dell’acqua in essi contenuta. I vini che se ne ottengono, sia bianchi sia rossi, sono più complessi, meglio strutturati, più ricchi non solo in alcol ma di ogni altro elemento delle sue doti qualitative. Che fare allora, come sfuggire all’ineludibile? Mi sono difeso sino ad oggi bene. L’Etichetta è un “rifugio atomico” a tutta prova, è un “compartimento stagno”, e tuttavia, gradevolmente dialettico. Leggi l’articolo sul Chianti classico di Daniel Thomases, quello sul Mad. 61 di Giovanni Salvaterra, l’intervista a Michael Broadbent di Gelasio Gaetani, il reportages sui grandi chef europei di Renato Fiorentini, il servizio sul rame in cucina di Marica Capello, le invenzioni artistiche di Aldo Mondino descritte da Decio Carugati.
Ripercorrendo le righe, eseguendo le ricette, bevendo i vini, ci confermeremo nella convinzione: la vita per noi è una continua, voluta eccitante selezione: al bello e al buono. Gli altri …. Meritano l’inferno di quel mio racconto mai scritto.»
Luigi Veronelli